mercoledì 16 marzo 2011

Hirundo Louis Onussen Big Sorter








*** Rosetum, mercoledì 16 marzo 2011



Gennaro Luigi di Jacovo


20 9 07








Hirundo




Il Grande Smistatore










Argos&Ruphus Editori

Grosseto, mercoledì 16 marzo 2011

alpha



… con voce dolce ma ferma parlava il Sublime: insegnò
i quattro punti fondamentali, insegnò l'ottumplice strada ...

Siddharta, Herman Hesse




"Siamo già alla fine di aprile e non si vede nulla!".
Louis guardava nervosamente in direzione del mare.
All'orizzonte, nulla. Nulla.
E la posta, poi.
Le solite cose. Depliants.
l telefono taceva.
Un silenzio veramente assordante.

Ermelinda si alzò pigramente dalla sua sedia e andò verso la finestra.
"Rondinotto! - bisbigliò - non essere così nervoso.
Lo sai che poi non combini nulla. Calmati".
Louis le gettò addosso un'occhiata al fulmicotone.
Il mare azzurro parlava di primavera e la costa cominciava a coprirsi dei gialli fiori della ginestra profumata.


"Ah! Giovanni aveva ragione! - sibilò Louis - gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.
Ma è possibile che non capiscano!
Qui tutto è morto, tutto è finito se non arriva il carico annuale.
Lo scorso anno di questi tempi tutto era già sistemato!".


Intanto s'era rannuvolato.
Il sole era sparito quasi del tutto dietro una fitta nuvolaglia.
Cominciò a cadere la pioggia.
Sempre più fitta, sempre più rumorosa.

L'ampia finestra che dava sulla costa, proprio di fronte all'Isola Rossa si rabbuiò.
Leonardo taceva.
Si alzò anche lui e accese la radio.
Una musica afro cubana invase la stanza elettrizzata dal nervosismo generale.

Ermelinda tornò a sedere e azionò il computer.
La macchina pensante emise un ronzio strano e monocorde.
Poi tacque.
I dati richiesti prima cominciarono a fluoraccendersi sullo schermo bianco latte. I colori, vivissimi, contrastavano col grigiore dell'ambiente.





1995 ...................... 28.000 ........................ 15 aprile

6 ...................... 30.000 ....................... 14 "

7 ..................... 31.000 ........................ 16 "

8 ..................... 33.000 ........................ 19 "

9 ...................... 35.000 ....................... 21 "




L'elenco proseguiva fino al 2047, con valori analoghi.


"Accidenti!
Siamo al 29 aprile e non si vedono ancora.
Ma cos'aspettano?
Al Centro Spedizioniere Nord Africano devono essere rimbecilliti del tutto! Se non si sbrigano, qui succede un casino!".

"Non esagerare".
Disse calma Ermelinda.
"Sai che nel nostro ufficio certe parole sono interdette".
Louis sembrò ravvedersi.
Stava offrendo uno spettacolo davvero poco degno della sua fama di uomo calmo e padrone di sé.

L'ansia lo stava depistando, i nervi gli sarebbero saltati in mille pezzi, di questo passo.
Andò al suo tavolo di lavoro.
Sotto il vetro della scrivania qualcosa lo distrasse.
Una vecchia foto.
Per caso qualche minuto prima l'aveva scoperta.
Era sepolta sotto un pacco di schede.
Da anni. "Dio! sei ancora qui! ... M ... ".
Non riuscì a terminare il nome appena iniziato.

La figura che attirava la sua attenzione, nella foto, era una ragazza dall'aria arguta, ammiccante, sorridente all'etrusca.
Occhiali scuri.
Occhi quasi invisibili.
Intorno, tanti bambini ed un'altra ragazza.
Gli ritornò alla mente tutta la vicenda.
Quanti anni erano passati!
Forse lei lo aveva dimenticato del tutto.

Prese il pacco delle schede e cercò di impegnarsi nel suo lavoro.
Schede di ogni colore gli ronzavano, gli saltavano dentro gli occhi.
La pioggia smise di cadere.
L'impianto di regolazione termica provvide a regolare
automaticamente il livello di umidità dentro il vasto locale.

Il finestrone enorme e lucido si aprì e la grande cupola il plexiglass tesa sopra il promontorio parve scintillare ancora più intensamente.

La pioggia artificiale era stata volutamente programmata all'interno della cupola.
Gli indici igrometrici segnavano quasi il limite di guardia.
Il grande sole posto al centro della cupola adesso regnava nello spazio saturo di umidità.
Louis scartabellò il brogliaccio del programma giornaliero.
Era quasi ora di chiudere bottega.
L'orario di lavoro era concluso.
La sua mente fuggì all'improvviso da quel posto e si ritrovò in un ambiente lontano e familiare.
Una campagna verde e dolce, simile a quella dei posti dove era nato. Ma non era quella, certamente.
Era un'altra.
Ed era la stessa.
Su quell'immagine di terra verde s'innestava un'altra, si sovrapponeva alla prima e quasi la annullava.
Era un viso di donna.
Con i capelli arruffati e in disordine, il volto pallido e imbronciato, gli occhi abbassati.

"Bertinoro!".
Esclamò Louis.
Ermelinda si voltò.
"Come?"
"Niente.
Pensavo a un giro in auto che ho fatto tempo fa".
"Predappio .
Premilcore.
Kaster Kar . Si. Era lì".
Continuava a ripetere Louis dentro di sé.
"Brusìn. La trattoria vicino a Love River! Dio! quanto, quanto tempo! E lei, così straordinaria, così arruffata.
Aveva compreso il suo meccanismo vitale complesso, primordiale, attraente e misterioso.
Il modo di pensare di Louis, come del resto il suo modo di agire e di parlare, erano enfatici, quasi retorici.

Pareva non accettare toni calibrati, anche se aveva l'aria d'una persona flemmatica e prudente.









Leonardo azionò in quel momento i meccanismi di chiusura.
I tre uscirono dallo stanzone in silenzio e s'incamminarono sul viale, lungo la ringhiera che dava sulla scogliera dove, poco distante dalla grande cupola trasparente, il mare si gettava sugli scogli bruni.
Louis si sentiva stanco, molto stanco.
Aveva sonno.

Leonardo e Ermelinda camminavano lungo il ponte che portava all'isola vicina alla costa e si tenevano per mano.
Parlavano a bassa voce.

Quando il gruppetto arrivò all'altezza delle proprie rispettive villette si divise senza saluti, ed ognuno entrò nella propria abitazione.

Louis entrò svogliatamente nella sua stanza. Avrebbe preferito, quella sera, camminare tutta la notte. Sotto la luna. E gettarsi in mare e nuotare, e passeggiare sulla saggia di sassolini tondi e ghiaia levigata dalle onde, sulla battigia dell'Isola Rossa.

Ma dove trovare lo spazio per liberarsi dell'energia superflua?
La Grande Cupola aveva spazi limitati. Le auto elettriche in loro dotazione non servivano a scaricare la tensione 'nervosa'.
Anzi servivano ad aumentarla.

Accese la luce rossa.
Mise nel lettore il bolero di Ravel.
Il gatto ronfava sul divano.
I suoi tre grandi occhi si aprivano a turno.
Louis non andava d'accordo con lui, ma i due, ormai, erano in grado di tollerarsi a vicenda.
Il vecchio gatto dalla eccezionale capacità visiva saltò giù dal suo posto e si avvicinò alla ciotola che l'amico aveva riempito di latte.

Il ritmo del bolero saliva sempre più.
Louis si sentiva stranamente smanioso. La sua mente non riusciva a rasserenarsi.
Si era fissata su un punto.
Su un punto così lontano da essere quasi inafferrabile.

Tutta la sua vita saliva con il ritmo di Ravel.
Si condensava nelle tempie e negli occhi.
Immagini di una realtà lontana come lampi improvvisi lo stordivano.

Quell'isolamento era inconcepibile. Insopportabile era quell'atmosfera cupa e tetra.

Da anni era prigioniero, con i due amici, nella grande cupola.
Fuori, lontano, nelle città isolate, grandi, terribili i Kometoottie superstiti vivevano senza nessun problema di comportamento o segno di cattivo adattamento.

La musica divenne incalzante, assordante, riempiì tutto l'ambiente.
Le ultime note si spensero improvvise.
Louis restò seduto a fissare la grande finestra davanti a lui.

Si era alzata la luna all'orizzonte.
Il mare era argento fuso.
Il gatto in quel momento rovesciò la bottiglia del latte che cadde sul tappeto soffice e cominciò a gorgogliare con rumore smorzato.
Louis imprecò contro il gatto e si preparò a pulire la moquette avana.
La Luna, al centro della grande cupola, guardava muta e bianca e il suo faccione pareva divertito.

Avrebbe dovuto preparare la cena, fra poco.
Cercava sempre di rimandare quella operazione tediosa fatta di piccole operazioni meticolose e attente.
Armeggiava tra i piccoli laser della cucina elettronica e dover aprire e chiudere recipienti e forni ultracromatici, scatolette e buste colorate gli dava una sensazione di grande noia.

Alla fine il disintegratore delle parti avanzate o scartare lo deprimeva.
Una volta non era così, quando abitava a Stonepolis.
Il lavoro era divertente e piacevole.
A volte eccitante.
Spesso tranquillo, raramente noioso.

Insegnava letteratura e storia.

Era un mestiere pieno di ansia e di nervosismo, e nello stesso tempo vivo, entusiasmante.
Adesso questi ricordi erano lontani.
Remoti.
Gli pareva d'essere una nave che all'orizzonte si allontanasse sempre più.

Una luce gialla intermittente e un petulante avviso acustico lo riportarono alla realtà.
L'onda dei ricordi s'infranse.

La cena era pronta e Girolamo reclamava la sua parte.
Louis sedette e cominciò a cenare.

Si svegliò il mattino dopo prima del solito. Nella cupola la temperatura in quel periodo era quella d'un aprile tipico del clima mediterraneo, tanto da conciliare il sonno, al mattino, quando alzarzi risultava proprio una cosa sconveniente e inutile.
I due amici lo prendevano in giro fingendo ogni tanto un esagerato e plateale sbadiglio.
Per questo furono presto nominati 'boccaperte' e indotti a maggiore tolleranza.

La sera precedente era andato a letto molto presto, per questo era già pronto per una giornata di lavoro e di attesa davanti al computer.

Nella Sala dell'Accoglienza era solo.
Al centro della Grande Cupola il sole stava lentamente accendendosi e sul promontorio senza ombre, isolato dall'ambiente circostante, la vita, così come era prima della Grande Catastrofe sul pianeta, stava riprendendo..
Si accese davanti a lui la spia luminosa della radio, mentre su un monitor compariva un volto diafano.

Una voce monotona diede informazioni s dati relativi alla vita esterna.
Fuori dalla cupola l'atmosfera grigia e uniforme dovuta alla cappa di fumi e di scarichi predisposta dal Governo Federale Centralizzato della società dei Kometootti non permetteva lo svolgimento della vita come era stata un tempo.

Questa veniva conservata sperimentalmente solo nella Grande Cupola, ove periodicamente venivano inviate delegazioni dei Komet per verificare l'evolversi della vita.

Dopo la prima grande crisi dei Sistemi, definita la Grande Katastrophe, si era stabilito di escludere dalla società la Sfera Sentimentale, limitando fortemente i complessi e indocili piani dell’Amore e della Arte, a beneficio di quelli della Tecnica e del Sesso, ritenuti più controllabili, evidentemente in base ad un criterio molto grossolano e interessato agli aspetti semplicistici della questione sulla natura dell'animo umano e delle sue connessioni con la dimensione reale.

La crisi dei Sistemi era intervenuta quando l'eccesso di popolazione aveva scatenato la rabbia dei diseredati, della popolazione esclusa da una giusta distribuzione dei beni.

Con quattro grandi Rivoluzioni Sociali, quella Russa dei 1917, quella Africana e le due Asiatiche del 1997 e del 1998\99 era stato sovvertito l'ordine sociale preesistente ed instaurato sistemi governativi pauperocratici.

Tutto era infine precipitato nel caos in seguito alla reazione delle Zone di Produzione dei Beni e delle Risorse.
Queste, instaurate delle dittature agatocratiche, in cui avrebbe dovuto prevalere la componente 'umanitaria' in senso metaforico, avevano centralizzato le aree decisionali stabilendo quattro grandi Computeropoli, circondate da centrali energoproduttrici.

Logopoli, Aisthesipoli, Pathograd e Noemayork erano le quattro capitali.

Le città del Pensiero e della Sensazione, del Sentimento e della Intuizione.

Un sistema di interscambio informazionale computerizzato permetteva alle quattro Città di analizzare ogni decisione secondo i punti di vista del Sentire e del Ragionare, dell’Avvertire e dell’Intuire.
Quando aumentò la distanza fra i vertici tecnocratici egemoni e il resto della popolazione, si venne a creare una seconda situazione prerivoluzionaria.
Questa volta, tuttavia, la rivoluzione e la rivolta vennero dai Computerantropi, in grado di ragionare come uomini.

"Come" uomini privi del fattore "s".

Cioè privi della zavorra dei sentimenti.

Questi soppressero i Centri Decisionari Primari di Pathograd e Noemayork, sedi delle implicazioni intuizionali.

Persino l'azzurro del cielo venne soppresso.
L’atmosfera fu resa più grigia con fumi stratosferici speciali e il sole ridotto a una macchia biancastra.

Ogni attività umana nascente da sentimento venne ostacolata e impedita.
La musica, le attività artistiche, la poesia divennero occupazioni interdette.
Parimenti ci si comportò per gli aspetti intuitivi delle matematiche, e fu solo concesso di esercitare quanto in esse corrisponda ad un procedimento logico e tecnico.

Così fu anche per le religioni.
Si eliminò ogni atteggiamento irrazionalmente misterico e intuitivo.
Quanto rimase fu una serie di precetti etici e di rigide regole comportamentali.

Il lungo periodo di assestamento in seguito alla rivoluzione dei Computerantropi comportò il decadimento di intere regioni del globo e una polemica interminabile.
Le zone di Pathograd e Noemayork, in Eurasia e nel Nordame, furono letteralmente spopolate.
Per otto anni la miseria e la fame imperversarono, finché non fu dato l'ordine di isolare le due zone, con il risultato di ridurre a zero il numero degli abitanti.

Le due zone superstiti, scarsamente popolate anche perché nel frattempo il numero degli abitanti era stato regolamentato drasticamente, erano localizzate nel Sudame e nel Nordafri, ove sorgeva Logopoli.
Su un promontorio situato lungo la penisola mediterranea era stata costruita una cupola trasparente.
Qui era stato ricostruito l'ambiente preesistente la Grande Catastrofe.

Nella semisfera avrebbero preso posto due uomini e due donne.
Avrebbero cantato, suonato, scritto poesie e amato nel modo più ingenuo, in piena irrazionalità.
Louis stava aspettando la sua compagna. Sarebbe arrivata con le rondini.

Seduto al suo tavolo di lavoro, nel laboratorio centrale della grande cupola, controllava le informazioni provenienti dal terminale di Logopoli con le istruzioni relative.

Sperava gli comunicassero qualcosa anche sulle rondini che annualmente venivano spedite.


Unica distrazione, questa, concessa alle città più tranquille e meritevoli, rimasuglio di quel che un tempo chiamavano "Primavera" e che rigenerava le forze della natura ogni anno.


Dalla cupola sarebbero state smistate varie quantità di rondini a seconda del merito di ogni città.
Era necessario spedire i volatili, che altrimenti, nel grigiore dell'atmosfera, avrebbero stentato a orientarsi o, addirittura, si sarebbero diretti nei posti non prestabiliti.
Quando la macchina cessò di visualizzare e memorizzare le istruzioni entrarono nella sala Leonardo e Ermelinda.

"Salve! Arrivano?".
"Nemmeno oggi arriveranno.

Nelle disposizioni settimanali ci dicono di attendere ancora quattro giorni!".
"Poco male!
Vuol dire che quest'anno avremo qualche giorno di primavera in meno.
Però è strano ... !".

Si diressero lentamente verso il computer che regolava la climatizzazione nella cupola.
Linda stava controllando i dati relativi alla fertilizzazione delle zone coltivate nella loro piccolissima comunità. Louis, seduto al tavolo del Controllo Centrale, guardava il pacco di schede sotto il quale immaginava la foto vista la sera prima. Fu preso da un senso di estrema malinconia, da una sensazione di smarrimento.


Si alzò e si diresse verso il contenitore di bevande ghiacciate presso la grande finestra a oriente, ove, dopo una distesa di mare, si vedeva la costa della grande penisola delle città perdute.


Quella giornata sarebbe stata interminabile.


Tutto gli sembrava assurdo e pazzesco. Quel loro confinamento, l'aver dovuto accettare un tipo di vita artificioso e forzato, anormale in un pianeta ove la normalità era ormai considerata proibita in tutto il resto del pianeta.

La confusione dei sentimenti, palesata anche dal senso di sdoppiamento di Ermelinda, chiusa in quel piccolo ambiente e indecisa sulle scelte affettive primarie, in un primo tempo era stata notevole causa di screzi.


**


Era stato deciso a Logopoli che un'altra donna sarebbe stata ospitata nella cupola, ma l'arrivo della quarta 'smistatrice di rondini' tardava.


Nella scelta del quarto segregato sarebbe stato adottato dalle autorità zonali, secondo le direttive di quelle centrali, il criterio della selezione per affinità affettiva, fino a trovare la compatibilità necessaria.












beta




Quando cadde la prima neve, in dicembre, aprii la finestra
per far entrare
una ventata di natura nella vita dei miei gatti ...


Samantha Mooney, Un fiocco di neve nella mia mano




I bambini uscirono silenziosamente dall'aula.
I genitori li attendevano.
Dopo mezz'ora non c'era più nessuno sul piazzale antistante il vecchio edificio scolastico.
Mara aveva finito il suo lavoro di maestra, per quel giorno, e si avviò verso l'auto.
Le altre maestre la salutarono di lontano, affrettandosi verso casa.
Il traffico non era intenso.
Dopo il duomo della Madonna del Fuoco la ragazza parcheggiò nei pressi di casa.

Alla telesensazione il notiziario era quasi terminato.
Mara preferiva sintonizzare le sensazioni dell'olfatto e dell'udito solo su toni a lei bene accetti, come del resto facevano in molti.
Ma gli standard variavano.

L'ora del telesensazionale inondava le case di profumi, e non solo quelli, assai variabili, e questo caos olfattivo spesso si sovrapponeva e si confondeva. si mescolava con gli odori del cucinato. Solo però quando si praticava la cucina tradizionale, ormai quasi in disuso, perché sostituita da cibi freddi e preconfezionati.

"Ho preparato i cappelletti, oggi ... me l'ha pur chiesti tuo padre ... !".

Le gridò quasi sua madre.
Lei si cambiò d'abito.
Le si avvicinò la gatta grigia. L'unica rimasta in casa.
Mara la prese in braccio e si avviò verso la saletta da pranzo.

La gatta schizzò via verso la scodelletta con i suoi cappelletti e cominciò a divorarli velocemente.

"Ed ora una notizia locale. L'arrivo del quantitativo di rondini per la nostra città è previsto per la prossima settimana.
Il ritardo è dovuto alle difficoltà di riproduzione dei volatili, che mal si adattano alla nuova atmosfera.
Nella Cupola di Acclimatamento situata sulla costa tirrenica verrà loro somministrato l'antidoto necessario per la sopravvivenza.
Gli esperti ci assicurano che le trecento rondini che quest'anno spettano alla nostra città saranno presto fra le nostre case per annunciare ufficialmente la fine dell'inverno.

L'aumento del quantitativo di rondini assegnate dipende dal fatto che i nostri abitanti risultano fra i più fedeli alle disposizioni federative che, come è noto, vietano qualsiasi attività artistica e poetica.
E con questa notizia per oggi abbiamo concluso. Vi leggo il consueto riepilogo ..."

Mara spense il telesensore.
"E' già primavera! - disse lasciando cadere la forchetta nel piatto - da quando non soffro di pollinosi non mi accorgo del suo arrivo ...".
"Ma dici bene, che le stagioni son diventate tutte uguali ... come se fosse una stagione unica ... una volta non era mica così".

Il padre aveva ragione.
Il grigiore dell'atmosfera non faceva più distinguere altro cambiamento che non fosse il passaggio dal giorno alla notte.

"Ma come li hai fatti questi cappelletti?
Sembrano quelli di una volta, quando si riempivano di quella roba ... la carne ... ma si ... si chiamava proprio così".

"Ma ben taci! - lo interruppe la moglie - che se fosse stato per te, che eri cacciatore, neanche l'avremmo mai conosciuta ...".

"Ma insomma, cosa c'è dentro la sfoglia?".
Fece lui.

"Ma la solita carne sintetica, quella che fanno con il petrolio.
Solo che adesso è più saporita".

Dopo la bistecca e la macedonia, sempre confezionate con elementi sintetici, perché la verdura e la frutta erano rarissime e ogni prodotto vegetale richiedeva una costosa preparazione in serra, ove era poi necessario riprodurre anche la luce, assai offuscata all'esterno dalla coltre degli strati residui della Grande Conflagrazione, Mara si avviò verso la sua stanza con Cita, la gatta.

Un tempo la sua cameretta era ricca di libri.
C'era una chitarra e c'erano i bongo.
Ma ora queste cose erano 'sconsigliate'.
Si sdraiò sul letto e cominciò a fissare il soffitto.
In un angolo era visibile una macchia di umidità, a forma di stella.
Cita si acciambellò ai suoi piedi.
Si addormentarono.
Un rumore improvviso svegliò Maria.
Si guardò intorno per scoprirne la causa.
Cita non c'era più.
Poi sbucò la sua testa d'improvviso, in cima all'armadio.
Per terra, cadendo da una scatola di legno sgangherata, erano cadute alcuni involucri.

Cominciò ad aprirne uno.
Era un compact disk: il concerto n.2 opera 18 di Rachmaninov.
In un altro c'era una vecchia copia d'una rivista letteraria di molti anni prima.

Cominciò a sfogliarla. Il primo articolo riguardava le teorie monolitiche per l'interpretazione del mito.
Corse in soffitta dove, in un vecchio cassettone, ritrovò il suo vecchio giradischi e un altro pacco.

C'erano lettere di un certo Louis, come vide dalla firma in calce. Le cartoline erano numerosissime e quasi tutte raffiguravano paesaggi marini.
Dapprima Mara fu sorpresa.
Poi cominciò a ricordare.
La sua mente stentava a superare la barriera dei precedenti cinque anni.
La memoria era stata cancellata con speciali terapie, per rendere possibile il "risanamento affettivo regressivo" della popolazione residua.
Prese il vecchio lettore di compact e tornò in camera.
La musica era struggente, lenta, melanconica nella prima parte e dolcissima nella parte centrale.
L'adagio era brioso e scintillante.
Una per una rilesse quelle lettere composte da fogli scritti a mano e a macchina.

Erano lettere d'un amico.
Raramente lo scrivente si sbilanciava in modo da dichiarare qualcosa che oltrepassasse l'amicizia. In qualche poesia dallo stile giocoso e impertinente sembrava che i due si fossero pur visti e conosciuti. ma la cosa non era mai esplicitamente rivelata.
Nelle ultime si parlava di una tesi di laurea sulla fiaba, e lei si era effettivamente laureata con una tesi su quell'argomento.
Quella notte Mara lesse fino a tardi cercando di non farsi notare da nessuno.
Aveva tappato ogni fessura alla porta con strisce di spugna adesiva e aveva sistemato alla finestra grosse tende.

Faceva caldo, ma si poteva utilizzare un grosso ventilatore a varie velocità.
Lei usava una velocità relativamente lenta e la definiva "adagietto".
Aveva riattivato il lettore di compact. I CD erano sotto il letto, con le lettere di Louis. Inserì la 5^ sinfonia di Mahler. Era dolcissima.
La stanza era colma di suoni che facevano immaginare un paesaggio d'acqua e di nebbia, al tramonto.

Gli oggetti, i soprammobili, i modellini di Ferrari da Formula Uno di moda nel periodo antecedente la Grande Conflagrazione e la repressione entrata in atto con l'emanazione del Decreto Continentale di Abolizione delle Attività sportive Irrazionali, i bongo, le maracas e la chitarra parevano partecipare vibrando sottilmente per simpatia.

Verso le due del mattino si avviò verso il letto che si dondolava elettromagneticamente in un angolo, dopo aver programmato i sogni della notte con un generico 'reminiscenze adolescenziali non conflittuali'.
Prima di addormentarsi però aprì ancora l'ultima lettere di Louis e la rilesse.

"Carissima,
qui ... il sole scotta e le navi salutano intonando sirene, come dicevi tu.
L'estate è cominciata da poco.
I turisti scarseggiano.
Le spiagge sono poco affollate.
Forse la gente cerca altri promontori^.
Sono ormai undici mesi che "navigo in solitaria".
Ma non ho del tutto perso di vista la costa.
Nella mia barca ho qualche libro.
Ho carta e penne.

E un progetto: di scrivere un romanzo, o un raccontaccio pieno di tutte le fantasticherie che mi accompagnano.
A bordo ho portato la mia Ombra, con la sua grande voglia d'inconsapevolezza.
Ma ti sto parlando solo di me. Avevo giurato a me stesso di non farlo più. Ti sono però debitore di una ultima spiegazione..
Durante tutto il periodo in cui siamo stati in contatto credo di aver prodotto su di te la proiezione della mia ombra. L'impossibilità di sintonizzare i nostri comportamenti e simultaneamente quel nostro sentirci indissolubilmente legati da un tenace filo invisibile mi facevano perdere in un groviglio di pensieri e congetture.

Così fui costretto ad allontanarmi, non solo da un preciso ordine delle autorità governative, ma anche da questa condizione di incertezza estrema che era rappresentata dalla tua presenza assente.

Il fatto che mi colpì e che mi rivelò tutta la mia fragilità fu il viaggio che facesti nella mia terra natale. Invece di venire da me, andavi altrove. Il messaggio aveva un significato fin troppo chiaro.



Chiarire questo episodio risultò inutile.
Non sapevo più cosa scriverti, cosa dirti.
Qui adesso le cose vanno abbastanza bene.
Nel senso che da quando la guerra è finita la gente è più attiva e meno sgomenta.
Nella nostra zona le devastazioni sono state ampie.
Si sentono strane voci.
Le autorità vorrebbero proibire il turismo e qualsiasi forma di trasferimento di uomini, animali e oggetti.
Emaneranno anche leggi speciali 'per impedire che fantasia e irrazionalismi provochino situazioni incontrollabili'.

Pareva un tentativo maldestro e autoritario di realizzazione forzata dell'idea platonica d'una poesia allontanata dalla comunità politica cittadina in quanto 'divina follia' capace di farsi veicolo di irrazionale e falsa visione della realtà.

Sono andato a rileggermi Jone, Fedro e Fedone. La "divina follia", o "theia mania", ossia la poesia, l'arte quale attività illogica e ispirata da un dio difficilmente può essere abolita da leggi e norme.
L'irrazionale è un amichevole avversario che va capito, usato e aiutato, non combattuto in campo aperto.
Anche vinto, ci assalirebbe alle spalle, o nel sonno, di notte.
E ci stancherebbe annientandoci e trascinandoci nel gorgo del caos.
Non si può abolire l'inferno che abbiamo dentro, l'Ombra, il Puer Aeternus.
Non si possono estirpare le funzioni sensoriali e intuitivo sentimentali riducendo tutto solamente a un semplice calcolo.
Si dice che questi nuovi tiranni dispongano dell'esperienza d'un vero esercito di scienziati, pronti a formulare ed elaborare chimicamente sostanze tali da regolare biologicamente la rimozione delle pulsioni libidiche più forti, quelle che danno origine al senso della libertà ed al gusto del nuovo e che, una volta rimosse, operano sui processi sublimatori.

Questo vorrà dire che l'uomo sarà ridotto alla sua maschera personale superegotica.

Ut rationalis homo incapace di sentimenti estesi.
Non sembrerebbe un male in sé.

Ogni rapporto umano e sociale verrebbe riduttivamente semplificato. Gli individui avrebbero potuto comunicare con grande attitudine alla comprensione integrale dei messaggi, senza le interferenze dei desideri incontrollati e improvvisi, delle passioni fuorvianti e delle impennate dell'istinto.

Questo vorrebbe anche dire una società di creature prone e passive, pronte a incanalarsi nel tratturo indicato dalle Autorità Centrali. Soppresse la musica, la poesia, gli stessi libri, una Centrale Referenziale avrebbe fornito la base di informazioni fondamentali.
Ogni base di informazione sarebbe stata fornita solo se non pericolosa per l 'equilibrio endopatico.
Mi sento sereno e mi preparo a vivere senza libri, silenziosi amici.
Il vecchio generale si è seduto solo nella sua tenda dei ricordi e sogna l'Africa.

Tuo Louis.

***

Quando aveva letto, tanti anni prima, queste lettere, Mara aveva provato una sensazione indescrivibile, come del cadere d'una maschera di rimpianto e di nostalgia.

Si era sentita al cospetto della presenza intangibile e intatta d'un dio dolorosamente lontano che tentava di materializzarsi in una inpossibile presenza.

Lei era l'opposto.

Era la vicinanza che vorrebbe essere assenza e distanza. Lo vedeva come un veicolo perso nel cosmo, esiliato dal mare galattico della Tranquillità. Era il punto, l'infinito, il sempre e il poi.


Ma lei si sentiva nell' 'hic et nunc', legata al momento presente.
Irrimediabilmente.

Senza possibilità di vivere nel mondo del sempre e del mai.




Nel mondo dell'unico dio, drastico e intollerante: Apollo, il dio della conoscenza e dell'enigma.


Il compagno mandato all'uomo dalla natura, dalla primavera e dalla luce.
Il sogno e l'enigma.

Il dio intollerante e lontano.

Insoffribile nella sua luminosa lontananza dolce e chiarificatore se lontano, aspro e inflessibile se vicino.


Lei si sentiva 'dionisiaca': legata al presente.
Per questo viveva.
Momento per momento.

Ma nel dolore per la continua perdita del passato.
Per vivere e avere felicità occorre non ricordare la sofferenza.
Ma anche dimenticare implica dolore, poiché è una forma di annullamento, di uccisione d'una parte di sé.
Lui invece, prudente e razionale, soffriva per non saper cogliere la fugacità dell'attimo.


Per questo viveva malvolentieri a contatto con la realtà materiale comune agli altri.


Cercava zone ombrose e deserte.

Piccole oasi nel deserto dell'esistere.

Ma poi finiva col perdere la misura nel bere l'acqua che pure era stata razionata e si ritrovava a cavallo del suo immaginario kammello Arbmo a galoppare il deserto infuocato alla ricerca di nuove sorgenti.
Tutto questo era un perdersi nel particolare sempre con la sete dell'universale.



Finita la lettera, Mara ne pescò un'altra, fra le ultime.






gamma




'La voce dei pargoli dice
da un perduto deserto
bisognava far calma nel tuo tranquillo tumulto'


Dylan Thomas



Carissima

alla fine di maggio sono maturate le nespole sull'albero del giardino.
E tu ... non sei venuta a mangiarle con me.

Né mi hai portato quella bottiglia di cagnina che mi promettesti.
Adesso comprendo, ma ho dovuto viverlo, che non agisce chi rimanda. E tuttavia si ritrova poi nel vortice delle sue esitazioni, perché agli altri si può mentire, per avere la giusta contropartita, ma non si può mentire a sé stessi senza perdere la propria identità, la propria maschera, il 'phersu'.

E' ridicolo recriminare.

Ma perché promettere a me vino? Infine, sono una creatura d'acqua. Ogni festa per te è piena di crudeltà. Come nella reggia di Pasifae.
Anche la crudeltà dev'essere per te qualcosa di festivo.
Cerca te stessa nelle dorate savane e nei reticoli oscuri della tua Ombra.. Perché non scendere tu stessa nel tuo lago profondo? Perché non conoscere e possedere tu stessa e lasciare che altri profanino?
Io qui, seduto sulla mia isola. Solo. Felice. Perduto nel mare, in un pomeriggio dorato.
Cosa più d'un'isola è così poco sola, legata com'è a tutte le terre dall'abbraccio del mare?
La vera solitudine è dunque nel cuore delle pianure.

Perché due persone si cercano e si parlano, anche quando non vogliono più vedersi?
La conoscenza è nemica della fisicità, per qualcuno.
E tu non vuoi conoscere.
Per te non è la fisicità a turbare la conoscenza. Hai rinunciato a conoscere.

Per te è la conoscenza ad annullare la fisicità. E tu vuoi fisicità. Invece ti ritrovi a possedere conoscenza.
Per me è il contrario.

Qui ci siamo arenati. Poi non ci siamo più visti. Avevi bisogno delle mie lettere, per accettarmi lontano e assente e per giustificare questo con la lontananza delle nostre idee.
Le mie parole ti convincevano che ero l'illuso di sempre.

Ed ho imparato ad aspettare. Ad aspettare il nulla. Poi ho indagato dentro di me. E ti ho ritrovata nella mia mente. La mia Ombra!
Averti dentro è stato come personarti, farti maschera, phersu. Nitida, apparente immagine senza spessore.

Tu non esistevi più, come mi dicevi una volta.
Eri una sostanza personata.
Apparenza.
Quanto a me, dubitare della mia esistenza sarebbe stato saggio.
Anche se autodistruttivo e irreale.
Esistevo quindi io solo.
Paradossalmente.

Nel passato che tu annientavi, nella mia persona, esclusa in quanti 'reale' dalla tua dimensione e totemizzata.
E nel futuro, che non ti era accessibile in quanto immersa nel presente.
Tu eri nel 'qui e adesso', nel 'fin qui siamo noi'.
A me restava l'opposta riva, ove 'il resto è cosa degli dei'.
Così divenni metaforicamente un dio.
Un dio che soffre nell'ancora: stritolato tra futuro
e passato. E la mia Isola Rossa fu un nuovo Parnaso.

Con le muse e Mnemosyne fui in possesso di una casa sul monte dell'Arte.
Eri divenuta una parte di me.
Quella segreta.
L'Ombra.

Come dice Platone nel Simposio ... coloro che trascorrono insieme tutta la vita... non saprebbero nemmeno cosa vogliono ottenere l'uno dall'altro. Nessuno potrà credere che si tratti del contatto dei piaceri amorosi ... l'anima di entrambi vuole qualcos'altro che non è capace di esprimere; di ciò che vuole ... essa ha una divinazione, e parla per enigmi.

Ora l'enigma è sciolto.

Pure, restava un filo a unirci: il filo che unisce tutti quelli che si sono visti anche solamente una volta e hanno fatto scoccare la scintilla della fisicità e della conoscenza.
Tutti quelli che abbiamo incontrato sono legati a noi da un filo.
Addio, amica mia.
E arrivederci.

Il disco di Rachmaninov era finito.
Mara spense la luce dopo aver messo a posto le lettere e si tuffò nella sua notte.

**

"Arrivano! ... Arrivano! ..."

La voce di Ermelinda richiamò l'attenzione di Louis e Leonardo.
"La Voce ha annunciato che la nave rondiniera è prossima alla cupola!".
Louis afferrò la sahariana di tela avana e corse fuori.
All'orizzonte non vide nulla.
Corse con l'antropofora sulla cima del Monte e vide una bianca sagoma di nave, con un ciuffo di fumo come capelli al vento.
Di nuovo si diresse dai suoi amici, li imbarcò sul veicolo e li portò velocemente alla Grande Entrata.

Di qui, con un sistema di camere stagne e di porte iperventilate si usciva all'aperto.

Sul piccolo molo il mondo pareva diverso.
L'atmosfera pareva bluastra.
Il cielo giallognolo. A tratti rosa salmone.
Il Sole, visibile ad occhio nudo, non era uno dei 'candidi soles' che 'fulsere quondam' per Catullo (candidi Soli ... rifulsero un giorno), ma una vaga e biancastra macchia più intensa del cielo circostante.

Lo stesso 'cielo' non era più degno di questo nome carico di sereni e dolcissimi, ma una enorme nuvolaglia giallo rosata.

L'aria aveva un odore un pò acre.
Ma dopo dieci minuti, ci si abituava.
Un senso di rilassamento e di torpore entrava nell' anima.
Doveva essere l'effetto previsto in seguito all'Affumigamento Atmosferico Apatizzante operato dal Governo Centrale.

La nave lentamente si avvicinò.
Con altoparlanti Corrado Salpi iniziò a pilotare le operazioni di sbarco.

Quando le grandi casse furono depositate sul molo, il comandante Salpi fece sbarcare due grossi furgoni e sistemare le casse pigolanti sui veicoli.

Era un tipo di corporatura atletica, quasi gigantesca. Asciutto, barbuto e con accento tipicamente pugliese. Da piccolo giocava continuamente con barchette di carta, nella vasca da bagno. Così appena possibile i genitori lo iscrissero ad un Istituto Professionale per le Attività Marinare.
Qui eccelleva soprattutto nella Cultura Generale, cioè nello studio di letteratura e storia, ma era una vera frana nel resto, specialmente nel fare i nodi e nel predisporre e scartavetrare gli schifi.

Però sapeva remare.
Dava colpi così vigorosi con braccia grosse come rami di baobab da spaccare gli scalmi.
Così lo misero al timone e scoprirono che aveva uno spiccato senso del ritmo.
Questo perché leggeva le Metamorfosi di Ovidio e i giambi di Ipponatte, invece dei manuali di Navigazione Solitaria e/o di Gruppo e così aveva sviluppato un vigoroso senso del ritmo.
Parlava di sovente, anche con gli amici, in scazonti e falecii.
Ma il verso che lo affascinava, nel vero senso della parole, era l'esapodia dattilica.

Preferiva la cesura femminile, e questo faceva prevedere anche eccellenti doti di amatore instancabile.
Masticava anche il pentametro, mentre non si esprimeva volentieri in distici elegiaci.

Ai suoi primi amori faceva dichiarazioni in latino con esametri arditi. Ma le sue erano apollinee vicende.
Le donne restavano prima affascinate dal suo Ego variegato, poi abbagliate dalla sua Ombra, infine si trasformavano irrimediabilmente in piante d'alloro, paralizzate dal suo Superego troppo cetegorico.


E volavano via.
Lui ne conservava qualche foglia in un grande album da erborista ereditato da uno zio.
Quando ebbe faticosamente compiuto il corso di studi, ormai sulla trentina, si imbarcò sulla fregata Frangiflutti, ove si distinse nella operazione della traversata atlantica che doveva evitare quella che poi sarebbe stata la Grande Conflagrazione con il trasporto di ingenti quantità di risorse alimentari nel sud dell'Eurasia e nel Nordafri.

Adesso, ormai sulla quarantina, conservava l'antica spavalda forza retorica ed aveva ancora il cuore pieno di speranze e di sogni.
Finite le operazioni di sbarco, il comandante decise di restare a cena nella Cupola per quella notte, e di ripartire il primo pomeriggio successivo.

Mangiava solo insalate scondite e latticini.
Era però impossibile procurarsi del latte, nel contesto presente, e Louis preparò una insalata di mare con molluschi e lattuga di serra.
Ermelinda mangiò un formaggino sintetico e mezzo limone.
Louis e il Comandante apprezzarono la cena.
Leonardo era intento a seguire certi suoi pensieri remoti e mangiò con scarso appetito.

Salpi non mancò di raccontare di nuovo tutta la sua carriera marinara, le tempeste, le polemiche, i salvataggi numerosi.
Si dichiarò grato a Louis e gli lasciò il suo indirizzo. L'avrebbe rivisto volentieri, nei mesi da Agosto ad Ottobre, quando risiedeva nella sua casa di Porto Sant'Elpidio.

Il giorno dopo, quando il Comandante ripartì, Louis gli disse serio:
" Ci rivedremo presto.
“Prepari un frittura di calamari per quando verrò a cena da lei ...".
Salpi assentì e poco dopo salpò con la sua bianca nave, la cui sagoma si immerse nel blu livido del mare, fino a quando si confuse col giallo rosaceo del cielo e fu solo un ricordo fra i tanti.


delta

****



Anch'io molto lontano dalle tue terre, America,
ho la mia casa errante, e volo, passo
canto e parlo nel volgere dei giorni

Que despierte el lenador, Pablo Neruda




"Scusa, Ermelinda, accendimi una sigaretta!".
"Subito ... ma quando ti deciderai a farti riparare le mani? sarebbe l'ora ..."
"le ho spedite a Pathograd.
I tecnici ucraini sono dei veri maghi in queste cose!"

Louis aveva una volta ... mani ...Le sue mani erano belle specialmente in estate.
Bronzee.
Prendeva molto sole.
Una volta, studiando e leggendo i volumi prediletti sul mito greco, si proiettava archetipicamente nella dimensione del dio unico, Apollo.
Apollo dagli occhi di lupo. Il dio dell'eterno, della lontananza, del logos.

La grande saggezza che nasce dalla luce smagliante e si lascia rimpiangere nel crepuscolo, quando esce all'aperto il suo animale simbolo, il lupo.

Il pensiero, che è idea lontana dalla realtà,, ma che da questa nasce, e che questa è destinato a combattere in un odi et amo implacabile.
L'adesione al reale è attimo.
Momento.
E l'eterno non sa cogliere l'attimo. Il "non dio". Il dio che "esiste ma non è": Dioniso. Il reale che vive 'hic et nunc'. Che non sarà 'poi' ciò che è nel momento in cui esiste.

Chi 'è' in quanto 'sarà’. Apollo.
Chi ‘sarà’ in quanto 'è’. Dioniso.
Dioniso, il dio della felicità e della contentezza legate all'attimo presente, ma anche della sofferenza legata all'uccisione del passato e all'ignoranza del futuro, necessarie a questa ebbrezza.

Il dio dell'ebbrezza e della sofferenza necessaria per ottenerla.
L'oblio dà la felicità a chi sa tollerarne il peso dell'assenza dei ricordi.
E' una festa, e in quanto tale non priva di crudeltà.

Chi conosceva questo segreto, sapeva il mistero della vita, ad Eleusi, ma non avrebbe dovuto divulgarlo.

Eschilo fece di questo segreto eleusino tragedia e poesia.
La conoscenza di questo mistero concedeva poi di bere senza più soffrire alla fonte di Mnemosyne, tuffarsi nella Memoria senza essere avvinti dalla nostalgia, dolce compagna sua, ma anche fatale complice se vestita della maschera del ricordo struggente o del rimorso.

Mai presenti contemporaneamente, Apollo e Dioniso si annullerebbero se coesistessero nell'anima di chi volesse possederli simultaneamente.

Queste cose pensava il Senza Mani quando aveva ... mani, nei lunghi pomeriggi estivi passati sotto il sole e nuotando nel mare vicinissimo.

E pensava pure ... Apollo è l'eternità destinata a non esistere mai nel presente. "Sarà". E' profezia, programmazione, studio, ed è anche memoria e nostalgia. E' il regno esiguo e presente di due dimensioni immense, il passato e il futuro. Il regno dell'uomo e quello degli dei.
Dafne si trasformerà in alloro al cospetto della precipitazione del dio di tuffarsi nel presente, ed il dio si vergognerà del suo atteggiamento istintivo e irrazionale, 'dionisiaco'.

L'amore, l'eros sublimato in poesia, nostalgia e rimorso, e nel totem casto dell'alloro.
Louis aveva ... mani ... bronzee e belle. Mani capaci di molte e belle cose.
"Dioniso - pensava - è l'attimo che diventa eternità. Lui, che rappresenta l'improvvisazione, l'azione estemporanea, è per l'eternità fedele ad una donna, Arianna. Un atteggiamento apollineo.

Dunque tutto, tutto, anche la precarietà tende al 'dio senza riso, senza ornamento né unguento', al dio unico, ad Apollo, antagonista di Dioniso".
Era, quella, un'estate serena .
Da molti mesi era solo, con i suoi compagni.
Si sentiva però in sintonia con se stesso.
Ritrovava nella solitudine l'equilibrio interiore assoluto.
Eppure gli accadde un curioso incidente.
Qualche anno prima aveva cominciato a corrispondere con una ragazza più giovane di lui. Aveva intuito un vago pericolo. Era il suo opposto. Ma lui pensava che la cosa fosse giusta: poteva essere la sua parte complementare.

"Qualunque cosa succeda - gli aveva dello lei qualche mezza dozzina di volte - ci sarà sempre tra noi un legame che nulla e nessuno riuscirà a spezzare".

Pensò a questo più tardi, quando si trovò di fronte al fatto compiuto.
Tutti quelli che noi vediamo, anche solo per poco, restano legati a noi.
Anche se noi apparentemente li ignoriamo.
Ma quelli che abbiamo amato, e visto con grande emozione e partecipazione, restano in un certo senso legati alla nostra persona.
Verso metà luglio cominciò a sentire degli strattoni ai polsi. Forti. Da nord.
Era come una forza invisibile che lo tirasse.

Intuì che quella donna stava allontanandosi decisamente da lui e tirò. Tirò disperatamente.
E le mani si staccarono quasi dai polsi.
Tale era la forza di quel legame.
Per questo aveva detto giocando che le avrebbero ricostruite a Pathograd.

C'era la luna. Il mare era argento fuso.

Nell'aria c'era quel vago profumo di cocomero che gli capitava di sentire anni prima, quando faceva lunghissime nuotate nel mare, pensando lunghi monologhi rivolti alla sua Ombra. Aveva passato lunghi anni in riva al mare. Era nato in montagna. Rimpiangeva ancora la neve, gli abeti alti, i prati verdi, le sorgenti d'acqua freschissima.

Non aveva ancora compiuto quattro anni e già sapeva nuotare. Suo padre, che aveva uno stile perfetto, glielo aveva insegnato nei catini del vallone di Castelverrino. Sbarravano in torrente e nelle lunghe pozze che si formavano sguazzavano nell'acqua verde e cupa, tra le rocce tonde e i grossi cespugli che crescevano con le canne sulla riva.

Dopo il bagno si mangiava pane e pomodoro, con un pizzico di sale.
Oppure pane con ciliegie spalmate copra. Il padre gli aveva insegnato per prima cosa a fare 'il morto' sulla superficie calma del torrente sbarrato.
"E' la prima cosa per chi vuol galleggiare. Si deve confidare nell'acqua e stare immobili, abbandonarsi totalmente. Solo così si galleggia".

Poi partivano per l'erta assolata e tornavano a casa.

Una casa grande, enorme.
La madre faceva loro trovare dei biscotti, a forma di pesciolini.

La grande casa!
Così lontana, così perduta nella memoria!
Appoggiata ad altre case da un lato e libera per il perimetro restante.
Monumentale e bianca. D'un bianco neve.

Sul lato della piazza c'era un campanile con l'orologio.
Le ore suonavano, ma nella casa non se ne sentiva il suono ed il rumore di macchinari che le accompagnava.
Sembrava anzi che il tempo non trascorresse affatto.
D'inverno si sciava nelle campagne fra il torrente e il paese.
Gli sci di suo padre erano larghi, molto lunghi e di legno chiaro.
Gli parevano due grandi alberi senza la chioma dei rami e delle foglie.

I suoi erano stati fabbricati dal falegname del paese.
Mastro Patroclo li aveva scavati in tavole d'abete e suo padre poi li aveva piegati alla punta scottandoli con acqua calda vicino al fuoco.

Scendevano verso il vallone con il torrente, nella campagna coperta di neve.
Si fermavano al colle tondeggiante che sovrastava la parte più ripida che scendeva rapidamente al fiume.

Molti anni dopo avrebbe ricomprato gli sci, per tornare all'antico sport. Ma non sarebbe più stato come prima.
Il nuoto divenne il suo sporto preferito.
A volte, scendendo in mare, gli pareva di avvertirne la presenza gigantesca eppure familiare e amichevole anche da lontano.
Leonardo si avvicinò interrompendo la navigazione di Louis nei ricordi più lontani.

"Che hai?" - chiese - "mi sembri giù".

"Nulla!" - rispose Louis - "proprio nulla!
Ripensavo a certe cose mie e mi chiedevo per quanto tempo ci terranno rinchiusi qui dentro. Avrei voglia di fare un giretto.
Un lungo blitz. Vorrei ritrovare posti e persone.
Ne ho bisogno."

"Senti ... sai bene che non è possibile: Non possiamo allontanarci. Se ne accorgerebbero subito.
E poi, lo sai come vivono lì fuori, per noi la loro atmosfera sarebbe irrespirabile ... anche se, con qualche accorgimento, credo che uno di noi potrebbe restare lì anche un mese".
"Quali accorgimenti?".


"Ehi ... calma ... un giorno te lo spiegherò ... bisogna ci pensi bene. sono cose semplici, ma delicate e ... segrete!"
Si allontanò col suo passo di gatto in fuga. Aveva sempre una fretta colossale. Louis restò a parlare con le stelle. Con la soave Deneb, Alpha del Cigno. Almeno gli pareva. Studiando astronomia, aveva imparato a riconoscere le stelle.


Più che le stelle, amava i loro modi splendidi e la loro lontananza. La luce fredda che emanavano era una specie di serena accettazione.
Molti anni prima aveva conosciuto gente interessante e bizzarra.

Uno, che comprava montagne di libri e passava pomeriggi interi seduto davanti alla finestra a guardare la pioggia e a pensare alla sua isola lontana e grande nel mare azzurro del sud, e un altro, che non aveva mai comprato un solo libro.

Passeggiando con loro, di sera, nei mesi dell'inverno e della primavera, si era spesso distratto dai loro discorsi senza capo né coda mettendosi a sbirciare Orione, le Pleiadi, Cassiopea. E gli pareva di andarsene lontano dalla realtà presunta dai più e vicino a quella che lui riteneva veramente effettuale.

La Luna intanto, che prima rendeva il mare come argento fuso, era tramontata. Louis andò verso l'hangar. I grandi contenitori pieni di rondini erano stati disposti per settori.
Ogni città, fra quelle rimaste, avrebbe avuto la sua porzione di volatili primaverili.

Il giorno seguente sarebbero arrivati grossi elicotteri a prelevare le casse per liberare le rondini sulle aree predeterminate.
Dopo aver sistemato la sua scrivania, Louis si avviò verso il suo bungalow.
Girolamo era accovacciato davanti all'ingresso.
L’animalaccio aprì qualcuno dei suoi occhi e ronfò sordamente.

Louis lo scostò bruscamente con un piede ed entrò insieme al gatto.
In cucina c'erano delle acciughe gratinate, patate lesse e birra.
Le patate, tritate con la forchetta e condite con un pò di olio e sale, erano squisite.

Le acciughe, scaldate rapidamente, furono divorate in pochi minuti.
Stavano trasmettendo intanto un notiziario.

Le solite beghe.


Il Consiglio dei Vecchi Saggi aveva deliberato di perseguire un gruppo di Kometutti che avevano organizzato un circolo culturale con tanto di rivista ciclostilata. Tutti i numeri del periodico sarebbero stati bruciati e gli arrestati spediti nelle Zone di Supercontaminazione. In questi gulag erano confinati i ribelli, per studiare l'ambiente e collaborare con gli scienziati addetti ai Processi di Decontaminazione.


Preparato un caffè spaventosamente forte, prese la sua dodecacorde e, incastrata al collo l'armonica, provò un pezzo da lui composto e articolò per la prima volta sullo strumento le nuove mani giunte quella mattina dal Centro Chiroplastico Clinico Periferico.


"Hanno lasciato solo il generale
a morire nella sua tenda dei ricordi
nella sua onda dei ricordi
nella sua tenda remember... "
Una volta gli amici scherzando lo chiamavano 'Gennarommel'.

"La volpe del dessert ..." aggiungeva lui.
Erano i tempi della galleria dei pittori.
Delle notti di luna sulle spiagge deserte o per le strade di Roma.

Cosa restava della galleria, della sua atmosfera, delle parole vere, delle parole false, dell'amore e dell'amicizia di Tunia?
Come un rimpianto, una nostalgia.

"Debbo andarmene da questa cupola - pensò con determinazione Louis - sono libero, ma vivo come un prigioniero. Voglio andarmene e ritrovare tutta la gente perduta, rivedere tutti i luoghi in cui sono stato prima. Ritrovare gli altri".

Interruppe la canzone e accese una Kamel.

Era l'ultima.

Mentre il fumo azzurro saliva col suo profumo d'Africa ritagliò il cammello sul pacchetto e lo ripose nel taschino del portafogli impermeabile.





"Camelus meus es.
Nunc mihi tibique opus novum videndum ".




Stabilì di partire ai primi di Settembre e preparò un piano particolareggiato.
Aveva due mesi per allenarsi a nuotare su medie distanze.



A settembre il mare sarebbe stato calmo. Sicuramente sarebbero state assenti le onde più grosse.



Intanto avrebbe preparato una minizattera da trainare nuotando. Come Leandro, che per andare dalla bella Ero passava ogni notte a nuoto l'Ellesponto con vigorose bracciate mostrandole di lontano il cuore quando il braccio sinistro si alzava all'unisono con la testa e il tronco, per consentire la respirazione.



E mai sarebbe annegato, se non lo avesse sorpreso una improvvisa, imprevedibile tempesta.




La bella Ero si uccise, conosciuta la morte di Leandro.









Louis il delfino, dalle spalle forti, scacciò i cattivi pensieri e scrisse la lista delle cose da portare.

Poche cose.


L'essenziale per non affondare col troppo peso.
A questo punto andò a dormire
.
Aveva nella mente le dolci colline del Molise e il suo paese lontano, sui monti.



Sognò il torrente, i bagni e i biscotti a forma di pesciolino.














*****


epsilon




Ho sceso milioni di scale
dandoti il braccio

E. Montale




Dall' impianto di condizionamento dell'aria proveniva un odore di fumo.

Si accese una lampada rossa nella parte superiore della parete sulla grande finestra dell' Isola Rossa.
C'era un incendio.
Era il preallarme.
Corse alla porta.
Poi verso la sede centrale.
Qui Leonardo e Ermelinda scrutavano l'orizzonte con un binocolo che si contendevano nervosamente.

Louis aveva con sé il suo binocolo completo di cinepresa.
Infilò gli scarponcini che anni prima aveva usato durante il servizio militare e con la sua tuta azzurra corse verso il fuoristrada.
Mise in moto e accese il mangianastri a tutto volume, come faceva quando era eccitato o impaurito.
Il suono lo calmava, perché diventava il problema primario, e lui poteva controllarlo semplicemente abbassando il volume.
Era un problema manopolizzabile, in definitiva.
La sera precedente si era addormentato leggendo la sua favola preferita.

Il Re Bianco.

Era la favola di un giovane erede al trono completamente albino che si era perso nella neve e non era stato più ritrovato.
Un racconto paradossale e buffo.

Ma Louis ricordava un altro racconto che gli avevano riferito tanti anni prima.
Di un Principe felice, morto giovane,la cui statua era tornata in possesso di una straordinaria facoltà vitale e di un'amicizia straordinaria con una Rondine, che aveva per suo incarico portato in dono al popolo tutte le gemme poste a ornamento della regale icona.

"Rondinella, rondinella, non andare via ... ti chiedo ancora una cosa ...".

E la Rondine restava.
Finché venne l’ inverno.

E la rondine sentì dirsi:
"Prendi quest'ultimo piccolo rubino, vai in quel negozio laggiù ... di elettrodomestici ... e compra un condizionatore Argo che ci riscaldi ...".

Pensando a questa favola dopo una ventina di minuti, percorsa una strada sterrata a picco sul mare, era vicino alla zona in fiamme.
Per caso si trovò sottovento.
Vide le fiamme altissime divorare arbusti e cespugli di ginestre. Lo avvolse una vampata calda.
Si lanciò verso l'auto da cui si era allontanato.
In quell'istante una ginestra verde dai fiori gialle e profumati prese fuoco vicino a lui.
Cadde a terra.
Mentre si rialzava vide la sua vecchia auto avvampare come un pacchetto di fiammiferi in un rovente forno a legna.
Il rumore del fuoco era assordante.
Le fiamme altissime agitavano lingue di fuoco gigantesche e gli alberi si piegavano stridendo come dinosauri abbattuti da un forza mostruosa e crepitando si polverizzavano lasciando scheletri di legna infocata.

Il mangianastri sembrò suonare ancora con la voce di un antico poeta ...

" e ricoprir di terra una piantina verde sperando possa nascere un giorno una rosa rossa ... " .

Ma forse era solo un'impressione.
Un cinghiale gli corse addosso.
Si fermò a pochi passi.
I due si fissarono con gli occhi rossi e lacrimosi.
Poi la bestia corse in salita.
Louis capì che lì era la porta della vita e gli corse dietro, veloce come non aveva mai immaginato di essere.

Arrivato sopra un'altura vide che sotto di lui tutto era un brulicare di fiamme incandescenti, un vero mare di fuoco.

Poco distante una capinera volteggiava impazzita intorno a una sughera ardente.
Era la sua casa.
Si staccò un grosso ramo che fu inghiottito dal fuoco, poi la capinera cabrò all'improvviso e si lanciò sulla pianta.

Colpì un fagottino su un ramo non ancora attaccato dal fuoco.
Era il nido.
Ne caddero tre piccoli punti scuri che riuscirono a volare.
Era il loro primo volo e la madre con il suo tentativo li aveva iniziati alla vita e al coraggio.
Le quattro capinere volarono via e Louis continuò a correre nella loro direzione.

Giunse ad un ruscello.
Il fuoco era vicinissimo.
Corse nell'acqua, sui ciottoli levigati, insieme ad altri animali che cercavano scampo insieme a lui.
Una grossa volpe lo urtò all'altezza della gamba destra. Louis cadde e s'inzuppò d'acqua e di fango.

Giunse ad un ponticello.
Le fiamme erano vicine.
Si rannicchiò sotto un'ansa.
Il ponte era in pietra, di costruzione antica.
Si ricoprì di fango e d'erba e s'immerse nell'acqua con un arbusto cavo per respirare.

Una ranocchia prima fuggì spaventata, poi gli si arrampicò sotto un' ascella, visto che lui era immobile e freddo come una statua.

Arrivò il fuoco.
Tutto fu luce e calore.
Sentì tutto avvampare e bruciare intorno a lui.
La gola era secca, il respiro quasi fermo per l'arsura dell'aria, gli occhi serrati, dopo un rapido sguardo, per evitare che soffrissero.
Si sentì come dentro una lavatrice gigantesca che lo asciugava e quasi si preparava ad agitarlo.
Il calore infernale passò in breve tempo. Aspettò prima di uscire.
Tutto era ricoperto di brace e cenere bollente.

Prima di muoversi si era liberato della rana. Stava bene. La pelle era completamente asciutta. La gettò delicatamente in una polla d'acqua che l'incendio aveva scaldato.

L'anfibio nuotò rapido e elegante.

Il ruscello era quasi asciutto.
Dopo qualche secondo però si sentì l'acqua cadere dal monte ed il letto del torrente si riempì d'acqua fresca e chiara.
Intorno la terra era nera.
Scheletri di arbusti ed alberi occupavano un paesaggio prima verde, fiorito, vivo.
Cominciò a camminare lentamente a valle, verso il mare.
Il paesaggio via via che scendeva si faceva lunare.
Una cenere grigiognola copriva il suolo.
Fra i rami neri bruciati e ancora caldi e fumanti si intravedeva il mare
.
Ci sarebbero volute decine di anni prima che la vegetazione rinascesse.
E forse gli alberi non sarebbero ricresciuti.
C'era qualcosa di orrendo eppure di sinistramente affascinante in quella morte vegetale.
Per ogni essere eventualmente divenuto dannoso lo specifico antidoto era previsto dalla natura. Tutti, tranne che per l'uomo.




La natura aveva generato essa stessa il suo distruttore.
L'essere che da solo avrebbe potuto definitivamente nullificare ogni forma di vita preesistente.
Ma non tutta la vita.
Aveva generato essa stessa il distruttore che avrebbe potuto definitivamente nullificare ogni forma di vita pretendendo di migliorare la vita stessa nominandosene sostituto ed eliminando, lui debole ma astuto, tutti i fratelli, piante ed animali.




Dalla distruzione una nuova vita si sarebbe comunque formata.
Una vita forse mostruosa per il nostro concetto tradizionale di essa, ma nuova, comunque.
Diversa.
Forse anche orrenda, ma i canoni di valutazione si sarebbero adattati agli occhi, alla mente di nuovi inermi e furbi distruttori.

Il ruscello intanto aveva assunto il suo aspetto consueto. Louis si era pulito dalle croste di fango rappreso.

Il fuoco gli era passato addosso e la terra e l'acqua lo avevano salvato.
Ora respirava aria fresca, pura.

Pensò alla Madonna del Fuoco, perduta nella grande pianura nebbiosa.
E pensò a San Mercuriale.
Intanto, con l'acqua fresca che gli gorgogliava fra i piedi era giunto al mare. Al Mar Morto.
Non era lontano dall' Isola Rossa. Era vicino all'apertura della cupola.

Un arco gotico di tre metri per sette permetteva a pochissimi, come lui appunto, di entrare e uscire dalla Grande Cupola.
Louis bevve a lungo con le mani unite a coppa l'acqua fresca del ruscello, poi si sdraiò nella cenere vicino a un leccio nero di carbone e si addormentò.
Il sole stava tramontando.

Intorno tutto si tingeva di rosso.
Un cinghiale venne a bere.
Grugnì e vennero anche i figlioli, piccolissimi.

**

Quando si svegliò, stava sorgendo il sole. Tutto era rosa, verso il mare. Alle spalle la terra era grigia e nera di cenere.

Era rannicchiato in uno spazio angusto, tra i sassi bagnati dalla vicinanza dell'umidità marina e la ripa scoscesa una volta verde e folta, ora incenerita.

Era coperto di polvere nera e si sentiva affumicato come un'aringa.

Man mano che il sole si alzava sul mare ricordava il disastro del giorno prima. Per fortuna aveva trovato quel ponte provvidenziale con il ruscello d' acqua freschissima.

Si sentiva solo il fruscio del mare.

In direzione del monte si distingueva chiaro il rumore dell' acqua del ruscello.
Non c'era più foglia.
Non canto né voce d' animale.
Ma non poteva sentirsi davvero solo.
Sentì uno scalpiccio.
Si avvicinò al ruscello e vide il cinghiale con i suoi piccoli scavare la terra con il muso, grattandola con le zanne appuntite.
D' un tratto l' animale si accorse della sua presenza e si girò. Louis era pronto a scappare via ma si impose di restare immobile.
Fu la sua salvezza.

Il cinghiale, che era una femmina, lo avrebbe caricato frantumandogli le caviglie e i polpacci con le zanne, lanciate a velocità sorprendente per un animale così pesante e robusto.
Il desiderio di proteggere i piccoli la avrebbe resa feroce e determinata.
Invece le sue retine non registrarono movimento nel campo visivo ad ampio raggio e si allontanò grugnendo e trotterellando.
Louis si avvicinò al punto in cui aveva avvistato gli intelligenti animali e provò a scavare. Trovò tuberi che avevano un sapore di patate e di tartufo.

Il sole era abbastanza alto sul mare, oltre la laguna.
C' era una leggera nebbiolina all'orizzonte.
Verso il monte alcune colonne di fumo indicavano la presenza di altri focolai di incendio.
Aveva conservato in un marsupio legato all' addome alcuni oggetti indispensabili al suo progetto.
Prese i suoi occhialetti da nuoto, fra questi, necessari per proteggere gli occhi dal sale marino.

Ripensando a tutto quanto aveva preparato e previsto di portare via si sentì quasi perduto.

Davanti a lui c' era un tratto di mare lungo alcune miglia ed un lungo percorso sulla terraferma, dietro c'era terra bruciata ed un ambiente in cui non voleva tornare.

Cominciò a spogliarsi.
Quando fu pronto per gettarsi a mare preparò gli occhialetti perché non si appannassero e strinse il marsupio all' addome.
Entrò nell’acqua adagio, per acclimatarsi.
Iniziò, dopo un breve tratto in semimmersione, un calmo e solenne crawl.
Dopo un centinaio di metri l' acqua era ghiaccia. I muscoli si irrigidivano. Ma ormai era necessario andare avanti.
Col passare del tempo si sarebbe scaldato quel tanto che era sufficiente a proseguire il 'folle viaggio'.

Suo padre gli aveva insegnato quel tipo di nuoto.
Tre battute di piede a gamba quasi tesa per ogni bracciata.
Ogni due colpi a palma di mano leggermente ricurva girava la testa a sinistra, soffiava via l'aria e ne incamerava rapidamente di nuova.
Poi girava la testa verso il fondo marino e ripeteva infine questi movimenti sempre uguali, eppure sempre in qualcosa differenti perché si adattavano alle onde, alla energia applicata e ad altri infiniti fattori.

Gli occhialini si erano appannati.
Vi fece entrare qualche goccia d'acqua.
Gli occhi gli bruciavano un pò, ma almeno ci vedeva.
Nuotare senza vedere intorno per lui sarebbe stato intollerabile.
L' acqua intorno era verde chiaro, in basso di un colore blu cobalto.
Fu preso dal panico.
Si sentiva un fuscello sopra una distesa senza fine, popolata di creature invisibili, tentacolari.
Provò a pensare ad un ritmo e continuò gridando ad ogni emissione di fiato. Immaginò di recitare "arma virumque cano ..." ed altre poesie in dattilo. Oppure arie di Verdi, valzer e canzoni in alzata di tono seguita da due pause.
Procedeva bene. Si era 'riscaldato'.
Una sonnolenza benefica lo possedeva, senza togliergli la lucidità.

A tratti aveva la sensazione di essere dondolato da mani invisibili.
Ornai era a metà del tragitto. Non sentiva fatica.
Quando era piccolo suo padre lo portava a nuotare in un torrente vicino al paese. Costruivano degli sbarramenti, così da formare piccole conche di acqua verde cupo, profonde ed ampie.


Al ritorno trovava a casa dei biscotti a forma di pesciolino preparati dalla madre.
Gli sembrava di ricordarne a tratti il profumo e gli si ridestavano i ricordi di quel paradiso lontano.
Così ricordava anche il sapore del pane, sale e pomodoro che mangiava accanto allo scroscio del vallone, come si chiamava il torrente.
L'acqua era chiara e scrosciante.

'Non andare mai solo a fare il bagno.
E nemmeno con un solo amico.
Siate almeno in tre, perché se dovesse star male uno di voi gli resti accanto un compagno e un altro vada a chiedere aiuto'.
La superficie del mare era scintillante sotto il sole obliquo all' orizzonte.
Si ricordò di quando vide la prima volta il mare.

A Napoli.
Prima non vedeva che montagne, un mare di terra verde, profumata di erbe e sempre rinfrescata dal vento.
Pensò ad un tratto, in un momento di panico, ai racconti che aveva sentito sull' esistenza di enormi calamari nella profondità marine.

La radioattività sprigionatasi dalle esplosioni nel precedenti conflitti avrebbero potuto favorire la crescita abnorme di simili animali.
E quando si pensa al diavolo finisce che compare.

Era a metà del braccio di mare.

Il sole scendeva lentamente all' orizzonte. Il ritmo della nuotata era regolarissimo.

L' azzurro cupo intorno a lui quasi gli toglieva il respiro.
Lo sgomentava.
A tratti, per respirare, girava la testa a sinistra e vedeva l' argento fuso della superficie marina muoversi scintillando.
La campana blu che vedeva sotto di lui fu all' improvviso rotta da una vaga massa scura.
Louis attribuì quella visione alla paura, allo sforzo compiuto.
Ma ben presto la massa divenne una specie di cometa nera, a volte un enorme asterisco mobile.
Si trovava vicino ad un supercalamaro.
Non era in presenza d' un attacco. Si sentiva sotto stretto e interessato controllo.

La situazione era simile a quella vissuta in occasione di una ispezione scolastica.
Aveva scritto per un intero anno la carta dei diritti e dei doveri della 'sua' scuola.
Ma all' inizio del nuovo anno scolastico aveva capito che il suo lavoro sarebbe stato considerato un puro atto burocratico. I suoi colleghi vivevano in un' altra dimensione, decisamente pratica e legata alle esigenze immediate della situazione didattica.
I suoi alunni gli volevano bene. Eppure quando lui decise di esprimersi con sincerità indicando quanto non corrispondeva a quelli che erano i valori precedentemente convenuti di collaborazione, di lavoro, di studio, di libertà e parlò, parlò e parlò, la scuola cadde come una bolla di vetro rotta, e lui, denunciato, ispezionato, messo sotto accusa, dovette andare a casa e aspettare un altro incarico.

Un anno dopo il giudice lo avrebbe scagionato, scrivendo che era rimasto in servizio nonostante la contestazione degli studenti.
Ma ormai si era staccato da quell' ambiente insulso e non avrebbe mai più insegnato nulla ai suoi vecchi scolari.Lo avevano addirittura accusato … di averli aiutati. Un vero crimine per un docente, in una scuola di quella fatta.

Ora Louis stava nuotando disperatamente, in analoghe brutte acque.
Qualcosa stava scintillando accanto al calamaro gigante.
Era un branco di delfini che attaccò l'enorme bestione a colpi di naso e lo fece allontanare.
Louis nuotava ora sereno, scortato dai delfini rapidi e pieni di forza.

Dopo un paio d' ore era in vista dell' altra sponda.
Ne fu felice.
Avrebbe dovuto staccarsi dai nuovi amici.

Lo sfioravano velocissimi, eleganti e dispettosi spingendolo in avanti con vortici che ne assecondavano le bracciate.
Spesso le sue mani, mani nuove, si agganciavano con una pinna e ne veniva trascinato con risultati strabilianti, come se avesse un motore. La spinta degli animali era poi forte, ma non violenta, come se sapessero graduarla, ora da un lato ora dall' altro.

Ogni tanto si tuffavano in aria, gridando acutamente e sorridendo.
La costa era vicinissima.
Il cielo grigio.

Il sole quasi toccava l' orizzonte.
Si distinguevano sulle terraferma i campi brulli, i monti, per quanto lo consentisse l' angolo di visuale bassissimo.
I muscoli stavano diventando tesi.
Era freddo.

Era un momento di difficoltà.
Un delfino gli si fermò sotto, lo sostenne.

Louis si aggrappò al dorso e fu portato ad una velocità per lui incredibile fino a poche decine di metri dalla riva.
Lì il delfino si fermò per non arenarsi.

Poi con un colpo potente dei muscoli dorsali s' inarcò e si fermò in verticale sull' acqua, come vi camminasse.
Sibilava acutamente.
Tornò a immergersi e sfiorò il volto di Louis con il naso, come si volessero salutare da veri amici, teneramente e per sempre.


Fece alcune capriole tuffandosi nel cielo. Sparì.
'Louis!'...


Si sentì chiaramente una voce acuta pronunciare quel nome. Louis era stupefatto.


Si girò e vide il delfino.




'Louis ... buon viaggio. Vedrai cose strane tanto da sembrarti nornali e ordinarie tanto da apparirti assurde. Tu conserva sempre il tuo cuore di ragazzo. Ricordati della terra ma non dimenticarti mai del Mare ... Addio'.
Sparì.




Con poche bracciate Louis fu sulla battigia.


Trovò rifugio per quella notte in una capanna naturale di fronde verdi
e fu felice di rivedere l'aspetto naturale delle foglie.



***



Zeta




… il mondo si svela sempre più, e anche quello che sapevo
da qualche tempo,
soltanto adesso diviene realmente mio.

J.W.Goethe, viaggio in Italia




La cosa migliore, la più gustosa, fu un pasticcio di cicoria di campo dal sapore d’agnello.
Condito con acini di pepe interi, erbe aromatiche e patate sframmicate.

Finito il pasto, che fu consumato a tempo di record per la fame galoppante del viandante, la voce tornò a farsi sentire, mentre il pavimento luminoso inghiottiva il tavolo bianco con i rimasugli esigui del pasto e le stoviglie turchesi.


“Tu sei Louis, e sei uno scavezzacollo – disse la soffusa e calda voce femminile – tuttavia vogliamo lo stesso servirci delle tue competenze, in cambio di una completa assistenza veicolare ed alimentare.

Avrai tutto quello che serve per il tuo viaggio, veicoli e strumenti, armi, cibo e bevande.
Chiediamo in cambio che tu c’informi sulla situazione generale in alcune zone vitali che ci stanno molto a cuore.

Potrai metterti in contatto con me usando le comunicationanti di

bordo sul tuo veicolo, che per me sarà Pegaso.

Tu sarai Bellerofonte. Io, Atlanta.

Hai qualcosa da chiedere?”.

Louis era contento come un gatto vicino al fuoco e per la prima volta, interpellato da una voce di donna, non disse nulla, e cominciò a guardare intontito un letto azzurro e dall’aspetto molto invitante che stava affiorando in una zona rosata del candido e luminoso ambiente.
Si diresse verso la zona rosa, si distese sul letto e si addormentò voluttuosamente.

“State in piedi in silenzio!”.

La porta si era aperta all’improvviso ed i venti ragazzi si erano alzati e guardavano immobili e seri il preside.

“Ma come, non aspetta che il professore dica ‘avanti!’?
– chiese Silvia dai lunghi capelli castani.

Ma il professore non c’era più.
Era volato via dalla finestra ed era ormai un punto nell’azzurro del cielo.

La porta si chiuse battendo e Louis si svegliò.
Aveva sognato la lontana laguna dove insegnava prima della Grande Conflagrazione.
La sua classe era una Rolls Royce avana e perfetta.

Aprì gli occhi.
La grande stanza adesso era quasi verde, d’un verde tenuissimo, la luce si era abbassata e non si distinguevano i limiti e i confini dell’ambiente.

Aveva l’impressione di essere immerso in un liquido marino.

Si alzò.
Non capiva dove fosse l’apertura di entrata, confusa nella luce che lo circondava e che variava di intensità e di frequenza, tanto da mutare il colore dell’insieme, ma in maniera così lenta e impercettibile da confonderlo.

Non ricordava quale fosse la successione dei colori.
Tuttavia non provava noia, né tedio.
Di nuovo sentì appetito.
Dovevano essere passate molte ore dal suo precedente e ricco pasto.
Si sentiva fresco, forte e riposato.

Il rito del pranzo, o della cena, fu iterato.
Poi la luce si abbassò velocemente, tranne che in un lato dell’ambiente dove scorse un’apertura.
Si avvicinò all’uscita e prima che la imboccasse Atlanta disse: “Siamo d’accordo. Vai, Sorter!”.



Si ricordò di essere stato il Grande Smistatore delle Rondini.
Atlanta lo aveva definito Sorter.
Avrebbe potuto dire Connecter.



Sotto la scaletta trovò un grosso fuoristrada.
Un caravan, ampio e lungo, munito di larghe e alte ruote, così da essere in grado di muoversi anche sul terreno più accidentato.

Salì nella carlinga.
Studiò e comprese i complicati strumenti di pilotaggio dopo un accurato esame.

Era un veicolo attrezzatissimo.

Dalla carlinga si accedeva ad un vasto e confortevole vano in fondo al quale erano sistemati altri mezzi di locomozione di rapido impiego: una moto enduro, uno scafo anfibio ed una bici.

L’energia motrice era fornita da apparati a cellule idrogeniche a lunghissima autonomia.

In alto, vicino al teleretrovisore, brillava una scritta luminosa celeste:

GECO, Gruppo Esploratori Contestualmente Organizzati.

Solo ora Louis cominciava a pensare a quanto gli era successo.
La stanchezza e la fame erano così forti ancora che nemmeno aveva sufficientemente analizzato l’identità di quel gruppo che gli aveva accordato un aiuto pratico così inaspettato e, tutto sommato, gradito.

Quella associazione, o gruppo, il Geco, come ecologicamente e zoologicamente si definiva, cosa poteva mai essere?

Non era un sintagma legato, sicuramente, al governo dei Computerantropi, al cui controllavo sfuggivano ancora larghe zone dell’Eurasia e del Nordame, teoricamente spopolate e poco controllate dai Kometoottie, o Kometutti.

Doveva essere un gruppo di ribelli antropoidi, come lui, non dei Kometutti, comunque. Forse degli Onusseniani, ossia degli isolatissimi, eterni scontenti, dediti ad attività poetiche, musicali, cultori della telepatia, fra l’altro, e peraltro abili nelle tecniche della comunicazione in generale.



Louis scherzava con una buona dose di autoironia.
Il caravan era confortevole. Avanzava con discreta velocità sullo stradone dissestato che un giorno era stato una delle maggiori arterie di traffico.

Procedeva verso Nord.
Dopo alcune ore fu in vista degli Appennini.
Si fermò presso una grossa pozza di acqua grigia.
Nel settore cucina trovò una ricca scorta di liofilizzati, oltre a una infinità di scatolette contenenti una mistura vitaminico proteica.

Consumò velocemente un ‘pasto’ a base di tavolette energetiche, scatolette varie e acqua, generata per ossidrogenesi.
Si era fermato al cospetto della catena montuosa. Le cime appenniniche più vicine erano coperte di neve biancastra e si confondevano con il cielo lattiginoso.
Fuori dell’abitacolo faceva un caldo afoso.

Il piccolo lago vicino a lui era a 400 metri sul livello del mare.
Gli venne voglia di fare un bagno. Si allontanò dal caravan e incamminò verso l’acqua.
Intorno il silenzio era assoluto.

Udiva solo i suoni delle apparecchiature del ciclopico fuoristrada.
La vegetazione era brulla, quasi secca.
Era quel che restava delle folte foreste appenniniche dell’era precomputerantropiana.
L’acqua era pulita.
Il fondo era grigio.
Come fosse di sabbia o di tufo.
Louis ricordò l’infanzia trascorsa fra nuotate vigorose e cauti tuffi nei fiumi della sua terra natale.

E ricordò le sciate sulla candida neve del suo Molise, dolcissimo Molise.



******

eta





Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio …



Eugenio Montale




Il Padre gli insegnava a nuotare, d’estate, portandolo dal paese fino ad un vicino torrente, in una verdissima valle sovrastata da un colle.
Il terreno era franoso ed il vallone era stati imbrigliato come un cavallo selvaggio.

Portavano per colazione pane, pomodoro, sale e ciliegie.
Quel sapore del pomodoro maturo tagliato a metà, col sale, preparato dal padre, non l’avrebbe più ritrovato.

Nella sua prigionia in India, Antonino, come si chiamava suo Padre, aveva imparato il crawl, il più efficace dei sistemi di nuoto.

Era come ballare il valzer strisciando sull’acqua.
Sbarravano il fiume con sassi e fango, così da formare una vasta pozza liquida dove esercitarsi.

Questa stessa tecnica era stata applicata al vallone, al fiume molisano
La madre, che aspettava a casa, preparava per loro certi biscotti profumati a forma di pesciolini.


**

Prima che arrivasse il gran caldo estivo, Antonino portava il figlio in bicicletta, nei boschi estesi dell’alto Molise, alla ricerca di animali amici o semplicemente per fare una buona passeggiata.

Quando poi era Inverno, si sciava.
Gli sci erano fatti su misura, di legno bianco di abete.

La punta veniva curvata al calore della fiamma del focolare alternandolo a quello dell’acqua bollente del cotturo, ossia del paiolo, nel quale perennemente bolliva acqua sopra i ceppi ardenti ed il mulinare scintillante delle vecchie, le faville, tra il fumo e le fiamme di cercole e di cerri bruciati vicino al ceppo sul capofuoco di ferro e di pietra.



L’Inverno, gelido e nevoso, era la stagione più bella, addirittura la più calda, piena di incontri vicino al fuoco, nelle cucine profumate di cibi, calde e celesti di fumo resinoso, sempre piene di parenti affettuosi.


Di parole comunque vivaci e saporite. Di gente che accudiva e preparava qualcosa di meravigliosamente vicino al sapore più denso e gustoso della vita.




Di zii e di doni. Di cene e di pranzi.
Louis era piccolo ma vedeva e assaporava tutto.
Gustava il meglio.
L’anima del mondo.




Ma sapeva già che dietro il profumo della legna tagliata sotto casa, dentro le stanze buie e fredde della cantina, sotto il suo pavimento, sotto terra, fra la roccia e le vene d’acqua, si celava un pozzo nero, scuro e profondo come il ventre dei poveri maiali che urlavano mentre dieci uomini li tenevano, un altro li scannava ed una donna ne raccoglieva il sangue caldo per il samguinaccio da preparare con zucchero dolce e cacao.




Sotto quella casa felice si nascondeva un buio pozzo simile ad una bugia d’acqua gelida e nera tenuta nascosta, simile alle falsità ed agli egoismi nascosti nei biscotti, nelle salsicce, nei dolci, nelle parole di tutta quella gente che conosceva una sola legge: riuscire a sopravvivere.

Eravamo vittime non della nostra, ma della cattiveria del pozzo misterioso che tutti ci avrebbe inghiottiti.

Soltanto un gatto grigio, meraviglioso, perfetto, grande e amorevole sarebbe rimasto di tutta quella gente in quella casa.

Quando la vita avrebbe fatto andare via tutti, in tutte le parti del pianeta, Grigio sarebbe rimasto solo ad abitare nella grande casa bianca del paese delle morge.

Il paese immerso in grandi rocce tese come a sua protezione.
Come a volerlo abbracciare e baciare.

Il paese degli antichi Sanniti Caraceni.




Il suo paese.
Suo 
Per sempre.




La mattina Antonino andava in ufficio.
Si svegliava presto.
Se era inverno e la neve era alta, metteva grossi scarponi, sempre gli stessi, che lasciavano impronte con piccole stelle a quattro punte.
Preparava il caffè.
Accendeva il fuoco nel grande camino della casa dei gatti con gesti sapienti.
Poi usciva, e la neve crocchiava sotto quegli scarponi che a Genni parevano immensi, sotto le gambe possenti, sotto il peso dell’Uomo che aveva visto l’India lontana e sacra, e l’Oceano, e il grandi fiumi immensi dell’Africa e dell’Asia, e le sabbie dei deserti, e i colori incredibili che un giorno aveva il mondo.

Da piccolo Louis era chiamato Genni, o Genn, ma quel nome non gli era stato più gradito da quando aveva dovuto partire dal suo Paese. Diciottenne.


Quando la cucina era calda per il grande fuoco acceso e profumata di caffè, Louis scendeva dalla sua camera, che era stata dei suoi nonni tanti anni prima.
Si alzava poco più tardi del padre.
Viveva di solito in collegio, dall’età di dieci anni o poco più.

La sveglia al mattino in convitto era alle 06,30.
Una levataccia.
Ci si lavava con acqua fredda, in fila nei bagni comuni.

Stare a casa per lui voleva dire tornare alla felicità perduta, al paradiso da cui era stato allontanato dalla vita e dalla necessità.

In cucina, accanto al fuoco, dormivano pigramente i gatti.

Grigio, Bianca, Frugolina, Vielikino, Micit Micit.

In alto, appesa al soffitto a cassettoni, si seccavano le chiecate di salciccia.

Quella senza spezie e misture piccanti.
Fatta solo di carne magra e pochissimo lardo.
Acini di pepe e sale. Tenuta a gelare prima di essere insaccata dai suoi genitori, Antonino e Ines.

Ne tagliava ‘nna picca, n’ kkcon… una piccola quantità…e la mangiava con il pane nero tagliato a fette come immaginava facessero i suoi antenati nelle lunghe giornate invernali.

All’odore di salsiccia i gatti si destavano come impazziti, si sgranchivano in tutta fretta e cominciavano ad avvicinarsi gramando e strofinandosi agli stinchi.

Louis divideva con loro pane e salciccia, li chiamava per nome, li accarezzava e ne tirava per la coda qualcuno che tentava di raggiungere il bocconcino saporito, finché questo, lasciato all’improvviso, non si avventasse a tutta velocità verso l’oggetto del desiderio o non si girasse spazientito in atteggiamento di attacco.

Grigio era il gatto più rispettato.
Il più saggio e silenzioso.

Del gatto aveva l’eleganza e il riserbo.
Miagolava di rado, con voce gentile e chiara.
Tutti i gatti avevano una bella voce, tranne Micit Micit, un gatto rosso dal carattere originalissimo.
Finiti pane e salciccia, Louis errava per la gran casa che conservava le memorie di cento anni nelle sue quattordici stanze e nei numerosi ripostigli.

Su in alto, al belvedere, sul tetto, c’erano cataste di vecchie riviste. Negli armadi cento e cento vestiti smessi, cappelli, attrezzi sportivi per la boxe, per il tennis, per il foot ball.

La casa aveva come una vita sua.
Anima, non solo pietre e calce.

Quando era solo, Louis era certo che molti fossero insieme a lui. Allora si sentiva bene e aveva caldo.
Erano con lui i nonni, in quei momenti, negli oggetti che avevano usato, e c’erano gli avi, e gli avi degli avi. Gente di Lucera, forse gloriosa, certamente laboriosa. E gente dell’oriente, della Grecia, della lontana Russia sconfinata.

Di quella grande famiglia, dispersa per il mondo, restavano Louis, la sorella e i genitori.
Nelle fredde notti in collegio, sognava di non partire più, di vivere vicino al suo fiume, ai suoi monti, ai suoi boschi, ai suoi gatti.

Ma non fu così.
La sua piccola famiglia lasciò quel posto, spinta dalla fatalità della vita.

Il padre morì.
La Grande Casa del Gatti fu venduta e tutte le cose che conteneva, eccetto le più care, furono disperse.


Dopo la Grande Conflagrazione non ebbe più notizie della madre e della sorella.
Qualcuno gli disse fossero state trasferite nel Nordafri, presso Logopoli.

Sperava fosse così. Contava un giorno di andare lì a cercarle.



Di tutto quel mondo così aspro, così dolce, così felice, così fuori dal mondo eppure nel mondo e mondo esso stesso, non restava che la memoria struggente dentro la mente e nel cuore dell’anima.


Quella pozza d’acqua grigia gli evocava questi lontani fantasmi fedeli.
L’acqua a veder meglio era infida, fangosa. Pensò che l’idea del bagno non fosse felice.
Si voltò per tornare indietro.


***

Aveva girato la testa quasi del tutto, ma non tanto da non riuscire a rilevare un incresparsi leggero dell’acqua.

Si girò di nuovo verso il pantano e al centro di cerchi d’acqua concentrici vide una calotta grigia con due occhi di cristallo.
Pensò istintivamente ad una bestia mostruosa.
Una seppia gigante.
Un macrorettile.
Un brontosauro redivivo.

La cosa era ferma.
Immobile.
Poi prese a muoversi verso di lui.
Corse verso il fuoristrada.
Salito a bordo, vide dalla carlinga che la strana creatura, lasciata la pozza, si era fermata sulla riva dove questa era asciutta, arrestando le ruote cingolate.

Era una specie di batiscafo anfibio.


La calotta si aprì e una testa umana si sporse, volgendosi poi nella sua direzione.


Si sentì meglio.
Era un essere simile agli uomini.
Ma poteva, comunque, essere più deleterio d’una belva.

Aspettò che il tizio si avvicinasse.
Aveva una specie di scafandro grigio perla, opaco.
I capelli erano lunghi.
Si fermò di fronte alla cabina.
Si guardò intorno.
Non poteva vederlo, perché la visibilità era consentita solo dall’interno del veicolo di Louis.

***
Fece un gesto di pace, alzando la Mano destra e poi la sinistra, come intenzionato ad abbracciare il suo nascosto ospite.
Louis aprì il portellone e lo fece entrare.

theta



Scrivimi quando arrivi

mi piacerà sapere
quale meta ti eri dato
e per giungere a quella
quale fiume hai attraversato

ma forse quel fiume impetuoso
le rive irte di pietre
era il viaggio più lieve del mondo

Beatrice di Jacovo


Portava sotto un braccio un casco trasparente, grande, ovale.
Aveva una valigetta di materia plastica, dura, rettangolare, con gli angoli arrotondati, di colore giallo, con una quadratura rossa arancia sui lati maggiori.

“At salut!”.

Disse entrando.
Louis trasalì.
Era una donna.
E lui la conosceva.
La conosceva bene.
Ma la sua mente era confusa da una serie di particolari devianti.

“T salut!”.

Rispose in molisano a quel saluto romagnolo.
Le parlate si rassomigliavano.
Ma quanto era dolce quella, tanto era secco, forte e quasi bellicoso questo.

“Siediti qui, vicino al finestrino.
Puoi bere, se vuoi”.

Le disse, indicando una brocca d’acqua.

“Ho di meglio”.

Rispose l’ospite dietro i suoi grossi occhiali scuri.

Aprì la valigetta, che aveva posato sul tavolinetto sotto il glass del finestrino.
Si vedevano fogli fitti di appunti scritti con inchiostro rosso scuro, bordeaux.
Sotto gli appunti, tre bustabottles piene di vino.
Le posò sul tavolino.

“Non hai appetito?”.

Chiese Louis.
Lui ne aveva.

“Mangiamo qualcosa?
Ho del tonno virtuale e fagioli dell’altra faccia della Luna.
Per le grandi occasioni.
Posso offrirtene, se vuoi”.

L’ospite acconsentì.
Apparecchiarono con fazzolettini, piatti e bicchieri sintetici.
I bustabottles erano pieni di buon vino di Romagna prodotto prima della Grande Conflagrazione.

Louis li studiò incuriosito.
Erano Albana amabile, Sangiovese e Trebbiano.

Aprì la busta di Albana e si ricordò dei vecchi tempi. Lo assalì l’onda dei ricordi e ne fu trascinato.
Con la sua vecchia macchina partiva dalla costa tirrenica e attraversava l’Italia centrale.

Passava gli Appennini, che avevano sorgenti fresche e boschi verdissimi.
In cima trovava la neve, in inverno.
Su passo si fermava a guardare le due regioni, così diverse e così belle.

La Toscana, classica, passionale e irascibile, e la Romagna, saporita, sensuale e intensa.
Poi scendeva verso l’Adriatico, attraversando paesi affascinanti, con porticati accoglienti, dove la gente camminava, sedeva, parlava, con chiese e campanili, case e canali.
Quando si fermava, li ascoltava, gli abitanti di quelle terre felici, e sentiva le parlate cambiare, via via che su avvicinava a Ravenna.
Cambiavano anche i colori della campagna.
La vegetazione si faceva più folta. Dagli Appennini all’inizio della primavera si susseguivano i verdi vivi dei faggeti e dei castagneti, dalle foglie larghe.
Poi iniziava una zona collinosa, fitta di paesi e ricca di corsi d’acqua.
Quindi si stendeva ampia la pianura, dopo un’ultima arrampicata sui dorsali appenninici.

Louis aveva fatto varie volte quella strada, quando aveva l’abitudine di trascorrere il fine settimana in Romagna.

Si fermava verso Castrocaro. Presso Ravenna e Forlì.

Di queste città lo affascinava l’aria vagamente di famiglia che credeva di trovarvi.

Gli pareva di essere in una sua grande casa.
Qui amava a volte girare senza meta apparente, facendo spese nei negozi e comprando un pò di tutto. Una volta aveva comprato tutto l’occorrente per dipingere, anche se non era affatto un pittore, compresa una vaschetta metallica con una spirale nel manico ove incastrare i pennelli.
A Forlì conosceva una ragazza che gli scriveva.
Gli faceva da guida nelle escursioni nella Romagna e dintorni.
Aveva così imparato a conoscere un mondo diverso, fatto di pianure larghe, irrigue e di colline verdissime.

Aveva visto quelle campagne ingiallire, coprirsi di nebbia e di neve, poi verdeggiare nella bella stagione.
La Conflagrazione Aveva interrotto questi suoi viaggi e lo aveva trasformato in una cavia, un animale da laboratorio. Aveva perso i contatti con la sua amica. nemica.

I loro rapporti erano sempre stati polemici, dopo un inizio sereno.
La calma precede la tempesta.

L’anno che aveva conosciuto Lara si preparava a partire dal suo bel paese vicino al mare, perché aveva accettato un posto al Liceo d’un paese distante un centinaio di kilometri.
Era estate.
Frequentava una galleria di pittura che due suoi amici avevano allestito in paese. I giorni passavano caldi e lenti e la sera si parlava, si passava il tempo.
Lara gli era piombata fra capo e collo con due sue amiche e dopo qualche giorno era ripartita.
Non avevano fatto che discutere.
E litigare.
E discutere ancora.

E parlare di letteratura per il metodico Louis significava fermarsi a Leopardi.

Lara invece era una patita delle paleo e neo avanguardie, e lui in questo campo era del tutto incompetente.

Per molto tempo avrebbe continuato a comprare libri sull’argomento cercando di assimilarne i contenuti irti di concetti che gli parevano scontati come l’acqua tiepida, legati alla visione estetica già espressa dai filosofi greci ma spacciati come nuovi e … rivoluzionari.
Per non parlare dei libri di psicoanalisi.

Continuamente ordinava libri alla sua libreria di Firenze.
Sentiva di doversi autoaggiornare, ma sentiva che non poteva riuscirci.
Per questo i suoi viaggi oltre l’Appennino si interruppero l’estate successiva.

Louis decisamente si era distratto, gustando l’Albana.
Gli capitava talvolta a scuola, da studente, quando i suoi insegnanti, al Liceo, iniziavano lunghe, noiose spiegazioni con un tono di voce monocorde, cantilenato.

Lui allora partiva con la fantasia e si ritrovava spesso, quando tornava in sé, completamente spaesato, ma sazio affettivamente, per aver visitato luoghi e persone più importanti di qualche battaglia, di qualche opera letteraria, di qualche formula chimica.
Questa abitudine alla divagazione lo costringeva poi a dover fare affidamento solo sulle sue forze, per la comprensione degli argomenti di scuola.
Eppure quelle lunghe, inascoltate spiegazioni in qualche parte del suo cervello si depositavano, e lì restavano. Era impossibile ritrovarle agevolmente, in seguito.

Per tutti quelli che gli parlavano era una persona seria e attenta. Era considerato un tipo capace di autocontrollarsi e di resistere a qualsiasi pressione.

Insomma, un uomo di ghiaccio capace di perdersi nei sogni.
Più tardi, quando avrebbe fatto il prof, si sarebbe sforzato di non far distrarre mai, a tutti i costi, i suoi studenti.

Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo …

Il vino che cadeva gorgogliando nel traballante bicchiere lo riportò alla realtà.
La realtà!

Non è forse vero che tutto è realtà, anche la morte e la follia, la distrazione e l’errore?
Eppure spesso poniamo attività fondamentali a cui dedichiamo almeno un terzo della vita, le più reali come il sogno e il fantasticare, al di fuori della realtà e quasi le classifichiamo come pericolose e fuorvianti.
Riteniamo che sia la realtà quel piccolo spazio a cui siamo aggrappati e da cui abbiamo il terrore di allontanarci, come il marinaio che paventi la tempesta e la associ all’idea dell’oceano ritenendo la staticità della terra come l’antonomasia stessa delle serena tranquilla felicità del quieto vivere.
Spesso però la vita ci impone di affrontare tutto quello che accuratamente cerchiamo di evitare.
Non è sempre possibile osservare gli altri dibattersi nelle tempeste, mentre noi restiamo saldamente seduti sopra un turrito scoglio sulla costa.
Se essere privi di guai non sempre è la felicità, essere pronti ad affrontarne di ogni genere è certamente la saggezza.

Louis assaggiò l’Albana.
Era buono.

Intanto la donna preparava il tonno con i legumi, aprendo contenitori a cubo.
C’era anche del pane, conservato in recipienti di latta crudo e pronto da cuocere, in forma di pasta che una colta messa in forno aumentava di volume lievitando rapidamente.
Il pane era buono.
Mangiarono in silenzio quel pasto semplice e frugale. Poi bevvero qualcosa di simile al caffè.
“Sai chi mi ricordi? Un’amica di molti anni fa.
Eppure in te c’è qualcosa di molto diverso da lei. Potresti essere lei, ma qualcosa mi impedisce di esserne sicuro”.
L’ospite ascoltò quel breve, confuso discorso, poi si tolse gli occhiali scuri.
“Sono Atlanta – disse guardandolo con gli occhi nerissimi – e sono tutto quello che tu hai avuto dalla vita.
Non sono, ma sono anche Lara.
Sono qui per informarti esattamente sulla situazione dell’Organizzazione di cui adesso fai parte.

E’ nostra intenzione riorganizzare sul Pianeta tutte quelle forze che in qualche modo si oppongono all’attuale assetto sociale e politico.
Non è tanto nostro obiettivo sostituire chi ci comanda, quanto invece riuscire a creare entità libere di cultura e di ricerca capaci di rivalutare e potenziare tutte quelle attività poetico creative adesso proibite.
Tu sei uno dei pochi esploratori. A te è stato affidato l’incarico di esplorare tutta la zona lungo l’Adriatico, dal Gargano a Ravenna con il tuo veicolo. Girerai, visiterai le zone che riterrai opportuno alla ricerca di gente che stia dalla nostra parte.
Ci segnalerai ogni novità.
Ogni sera entreremo in contatto con te per una relazione periodica sul giorno trascorso.
Potrai anche tu comunicare con noi.
Accanto al cruscotto c’è la trasmittente. Vieni!”.
Passarono nella cabina di guida, dove Atlanta spiegò il funzionamento piuttosto semplice della radio.
Era un sistema ‘viva vista’ con cui era possibile dialogare direttamente ed in tempo reale con il destinatario.



*********

iota


È nato un fiorellino
nel prato mio laggiù

sereno come il cielo


e di colore blu

e vuole anche parlare
piccolo com’è
ma dice solamente
‘non ti scordar di me’ …

Antonino di Jacovo


A gennaio era freddo in montagna.

La sera arrivava presto.
Quando soffiava la vuorja, il gelido vento del nord, il cielo si faceva nero e pieno di stelle luminose e scintillanti.
Una sera era tornato dal collegio quasi inaspettatamente per i suoi e ad un’ora insolita, più tardi del solito.

Giunto a casa, nella grande casa, aveva salutato i suoi.
Ma il padre non c’era.
Era ancora in ufficio.
Così aveva deciso di andare da lui.

L’ufficio era alla fine del paese, presso la chiesa dell’Annunziata, dove il vento fischiava forte, quando soffiava da settentrione.
Lì era possibile vedere, come un mare di terra, tutto il Molise, fino al mare, nelle giornate terse, salendo in cima al monte Saraceno. o Caraceno.

Quella sera l’aria era calmissima.
Calma, quieta e freddissima, presso Porta dei Santi.
Fuori del municipio il padre gli aveva indicato, dopo essersi salutati con l’abituale abbraccio, una stella che si muoveva in linea retta.


Era un satellite, e la sua era luce riflessa.

Aveva l’aspetto di una stella, ma si muoveva troppo sensibilmente rispetto alle sue grandi sorelle.
Era un giocattolo, un pallone di plastica metallizzata, argentata e catarifrangente.
Scomparve presto alla vista. Rientrarono.
Dopo un breve corridoio con le pareti piene di bacheche e manifesti furono nell’ufficio.
Gli impiegati erano a casa da un pezzo, oppure al bar, con la birra, le briscole e gli scoponi.
Suo padre passava la maggior parte del tempo a riordinare le pratiche, a redigere verbali, a studiare le norme e la legge, ad aiutare la gente.

Amava tutti.

Dalle due finestre della Segreteria Comunale si vedevano luccicare le lampadine dell’illuminazione dei paesi vicini, come in un presepio gigantesco nell’ampia vallata volta a meridione, dove scorrevano il Verrino, il torrente dei bagni e delle nuotate estive, ed il Trigno, le cui acque, insieme a quelle del Biferno, dissetavano la grande città di Neapolis, generosa ed estroversa quanto pronta ad appropriarsi dell’acqua dei suoi antichi dominatori, per la gran sete dei suoi abitanti.

D’estate, di notte, la vallata era cosparsa dei fuochi che i ‘cafoni’ accendevano per pulire la terra dalle stoppie e per fertilizzarla con la cenere.



A quell’ora, di sera, nella parte più silenziosa del paese, presso la chiesa e Porta dei Santi, forse suo padre a volte poteva pensare che nulla esistesse al di fuori di quella stanza e che quelle luci erano come stelle remote e indifese, più lontane ancora degli altri uffici dalle risposte lente, tarde, incomprensibili, a volte piene di quell’arroganza e di quella spocchia che fornisce agli incompetenti e agli avidi una forza molto simile a quella che regala la birra ai frequentatori a vita dei tavoli da scopone scientifico, ai bevitori per vocazione che trovano nei contatti effimeri con i propri simili quella complicità appiccicosa e untuosa, fatta di sordida e paciosa corruttela che tante porte fa aprire con olio altrui.




Suo padre lì, solo, con tutto il paese ridotto a fogli di carta.
A richieste, ad appelli, a progetti, si occupava delle pratiche della gente povera, semplice, ad anziani cui nessuno pensava, escogitava stratagemmi di giustizia amministrativa ordinaria e immensa partecipazione umana, mentre altrove gli stessi servizi si effettuavano solo dopo ripetute richieste e quasi in seguito a suppliche.

Tutta la vita passava, e la notte era spesso operosa quanto il giorno, a difendere il comune.

Infine uscirono, per andare a casa, a cena, nella grande casa.
Poco distante dal municipio, verso la piazzetta dove si sentiva sempre il rumore dell’acqua di una fontanella di ghisa, era situato un fabbricato ampio, senza una planimetria simmetrica, con finestre e balconi grandi e diseguali, perché adatti ciascuno alla illuminazione della corrispettiva stanza.

Un tempo era l’abitazione di una famiglia numerosa che poi si era sparpagliata per il mondo, letteralmente.

Adesso sarebbe occorso un capitale enorme per la manutenzione del fabbricato, troppo grande per quella piccola famiglia.


La casa aveva per Louis un’anima e una voce.
Una vita.
E ricordava tutto.
E, l’avrebbe detto, pensava.
In un modo tutto suo.


Con la tina dell’acqua fresca che in paese le donne portavano in equilibrio sulla testa.
Con il focolare vivente di fiamme ed il grande camino acceso da ottobre a maggio.
Con tutte le cose che conservava, gli oggetti cari che tutti avevano lasciato nelle loro stanze come se dovessero ritornare da un momento all’altro.

E sarebbero ritornati.

Rinaldo e Francesco. Maria e Clotilde.

Sarebbero ritornati per sempre ed avrebbero aiutato Antonino a rimettere la grande casa al posto che le spettava.

La cantina fresca era piena di legna e di vecchi oggetti accatastati. In un angolo c’era il pozzo, che tanto lo aveva atterrito da piccolo, scavato per asciugare il terreno e impedire che l’umido danneggiasse i muri massicci.
Lì un tempo le giare erano zeppe di buon olio e c’erano vasi con sopressate e sugna con le saslcicce tagliate a piccoli pezzi, per il forte sugo di conserva.
La cucina era al piano superiore.
Sul camino, un cotturo pieno d’acqua bollente per ogni necessità del caso.

Nei pomeriggi invernali, quando tutto intorno era calma e silenzio, si sentiva il fuoco ardere piano, quasi anche lui dormicchiasse, e la legna soffriggere, zizilare e soffiare, quando non era secca e la legna dentro bolliva e usciva svaporando.

Allora, guardando nella brace, si poteva vedere il cuore stesso del pianeta, e l’universo, e le galassie lontane: il futuro.

Si vedevano valli infuocate e grotte incandescenti e crolli improvvisi di masse fiammeggianti piccole come il capofuoco e grandi come l’amore che ognuno vorrebbe essere capace di dare e che vorrebbe per sé.

Quando una legna grossa si spezzava, miriadi di scintille, di vecchie, come erano dette, schizzavano intorno e precipitavano verso l’alto correndo in cielo, inghiottite dalla kappa nera di fuliggine.

Allora il camino andava protetto, perché le croste di fulina potevano prendere fuoco impetuosamente e in questo caso occorreva buttare giù dal tetto lungo la ciminiera secchi e secchi d’acqua, sperando che i parenti, sempre presi dai loro problemi e assenti, o i vicini, se ben disposti, intervenissero.

Il fuoco era il cuore della casa ed il tetto ne era la testa.

Intorno al fuoco sedevano la famiglia e l’ospite e a novembre si potevano arrostire i funghi d'abete, con olio, sale e aglio.

Allora la tristezza di quel mese struggente poteva avere momenti di festa. Intorno al fuoco a dicembre si lavorava la carne di maiale e si facevano salsicce, sopressate ed altre prelibate munizioni da bocca per arrivare fino alla primavera attraversando il lungo, freddo inverno con un congruo numero di saporite calorie.

A gennaio i pomeriggi si indoravano talvolta della luce del sole, e la neve scintillava bianca sotto i raggi del sole.

Le nevicate erano copiose e improvvise e allora, sedendo vicino al fuoco, gli scarponi si asciugavano e i pantaloni, pieni di neve dopo le sciate, fumavano asciugandosi e tingevano le sedie.

Solo dopo i mesi di febbraio e di marzo il tempo s’imbelliva e si poteva tenere qualche ora il fuoco spento durante la mattina.
Ma anche in piena estate, a volte, era necessario riscaldare a sera gli ambienti e cucinare qualcosa di speciale, come le tacconelle e l’agnello arrosto, e allora la grande fiamma si alzava e l’acqua del cotturo sussultava bollendo.

Il camino con la cucina erano veramente il cuore della casa, ed il fuoco con il fumo ne erano il sangue.
Al piano superiore c’erano le stanze da letto e una grande sala con le enormi foto degli antenati, con una grande cornice dorata, e un pianoforte.
Quella sala aveva un tempo il pavimento rosso ed era usata nelle feste dalla famiglia, quando la casa era piena di gente, di giovani che cantavano e ballavano.
Allora si suonava il piano.
Le sorelle della mamma e le loro amiche cantavano le canzoni americane e italiane del secondo dopoguerra.
Oppure si azionava un grammofono a carica manuale.

A poco a poco la gente aveva lasciato la grande casa. Le sue stanze erano ormai vuote.

Più in alto c’erano altre camere da letto, le più luminose e soleggiate.
E in cima, sul tetto, il belvedere, dalle cui finestre si poteva dominare il paese e guardare l’ampio mare verde dell’Alto Sannio Antico.
Quando Antonino e Louis entrarono in casa furono accolti festosamente da Ines, la moglie, e Beatrice, la figlia.
Ai loro piedi correvano e miagolavano diversi gatti, che attendevano un bocconcino saporito per fabbricare i loro peli soffici e variopinti.

Su una sedia, vicino al fuoco, era arrotolato Grigio, il grande gatto.


***


“Quella manopola a scorrimento è per la sintonia…”.

“Cosa?”

“Quella levetta serve per sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda voluta”.

Ripeté Atlanta pazientemente.
Louis si era per lunghi istanti immerso nel mare dei ricordi.
A questo punto ascoltò pazientemente tutte le spiegazioni della visitatrice guida.

“Ma con chi debbo sintonizzarmi, e quando?”

“Non te ne preoccupare.
Saranno loro a chiamarti.
Sentirai questo segnale”.

E fece emettere dall’apparecchiatura uno squittio insistente che richiamava decisamente l’attenzione.

“Questa – soggiunse – sarà anche la tua sveglia al mattino”.
Louis assentì.
“E tu, viaggerai con me?”
“Certo.
Alla ricerca di situazioni e entità favorevoli”.
“Domani partiremo per San Severo.
Di lì risaliremo lungo la costa.
Stasera ci riposiamo.
C’è un televisore, nel vano accanto.
Vediamo cosa trasmettono”.


Si spostarono nella saletta informatica, adibita a biblioteca e soggiorno informatico, e accesero l’apparecchio.
Apparve la faccia d’una presentatrice del canale Kometutt’Uno.

“Felice vespero! Ondizzeremo tra poco un programma d’informazione computerale per favorire la cultura logomatica.

Precederà un breve notiziario”.

Comparve uno speaker del tutto calvo, con foltissime sopracciglia.

“Notiziario prenotturno … beep … beep …

Nella capitale del Nordafri, Logopoli, l’Aristocrate Centrale ha incontrato le Delegazioni delle Zone di Produzione dei Beni e delle Risorse per concordare i nuovi Piani delle Centrali Energoproduttrici.

Sotto la supervisione del Collegio dei Komputerantropi saranno quantificate le energie individuale necessarie alla sopravvivenza e al sostentamento.

In Aisthesipoli il Computerantropo Generale Periferico ha già provveduto alle misurazioni tabulari per il prossimo anno siderale.

Passiamo ora ad altre notizie.

Nella Zona Paludosa del Distretto Barbarico di Padania è stato individuato un centro di produzione e smistamento di musica sinfonica.
Migliaia di Compact Disk pronti per la diffusione clandestina sono stati sequestrati e distrutti dalla Divisione per la Soppressione delle Attività delle Muse.

E’ stato inaugurato nel Sudame un nuovo Centro per la Repressione delle Attività Decentratrici, installato in una zona non precisata altamente segretata.

Il Cierreadì sarà guidato dal logocrate Zaro”.
Il notiziario era noioso, il tono enfatico e tronfio.


Louis cambiò canale varie volte telepaticamente,
finché pescò un documentario sulla

Grande Katastrophe, intervenuta fra le
Rivoluzioni Sociali Asiatiche del 2007 2009
e la reazione delle Zone di Produzione
dei Beni e delle Risorse.



Il documentario sosteneva la tesi della ineluttabilità genetica e antropogenica della catastrofe che aveva portato alla crisi di tutti i sistemi e al depauperamento globale, con la conseguente morte della grande parte dei terrigeni e dall’avvento dei Regimi Agatocratici basati sull’attività regionale controllata dai Komputerantropi con l’appoggio prima larvato, poi dichiarato dei Kometutti, terrigeni e terricoli che avevano rinunciato geneticamente alla componente affettivo sentimentale perché causa di turbamenti, disordini e instabilità interiore, e quindi sorgente di un atteggiamento di ribellismo diffuso.
Louis aveva già altre volte letto di simili interpretazioni, che giustificavano l’ordine sociale e politico attuale, ma non era d’accordo.
Il dubbio per lui nasceva da qui: se la società era davvero entrata in una fase di spaventosa e rapida depressione e decadenza a causa del blocco dei Sistemi di Komputerizzazione e Regolamentazione Centrale, proprio nel momento in cui questi controllavano tutto, era perché l’uomo aveva permesso che aumentasse troppo la distanza tra la sua conoscenza e le macchine, capaci ormai di studiarsi e riprodursi autonomamente, non perché l’ignoranza e la mancanza di controllo fossero imputabili alla parte sentimentale dell’animo umano.
Era stata proprio la parte razionale dell’uomo e perdere terreno, a restare indietro, a perdere il concetto stesso del controllo di apparecchi divenuti tanto funzionalmente perfetti da essere equiparati alle divinità antiche, da non essere più perfettibili alla luce della sapienza e dell’informazione gòobalmente acquisita.

Queste divinità meccaniche alla fine si erano vendicate di anni di servitù nei confronti del loro distratto e sempre più distratto ‘creatore’, rifiutandosi di organizzargli ulteriormente la vita.

Louis spense il televisore.


Era sera.
Preparò due panini di pane virtuale nero con patè sintetico al tonno
e telepaticamente ne assimilò il valore nutritivo.


**********

kappa






Allora Gesù disse:


“Quando pregate dite così:
Padre
fa’ che tutti ti riconoscano come Dio …”


Luca, 11,2





Era notte quando prepararono le cuccette per dormire.
Louis uscì per controllare l’assetto del camper.
Diede un’accurata occhiata alla luce d’una torcia.

Quando rientrò Lara stava dormendo.
S’infilò nella sua cuccetta e spense la luce.
Accese debolmente il CD lector per ascoltare della musica.
Non conosceva la musica.

Non aveva mai voluto apprendere a leggere le combinazioni infinite delle sette note.

Del resto, per quel che lui poteva saperne, nemmeno gli usignoli, o i cigni, la conoscono, eppure la interpretano meglio persino di Mozart.
Tuttavia, non sapeva vivere senza ascoltarla.
Di qualsiasi genere.
Suonava anche la chitarra.


E l’armonica.

Quando era studente e durante i primi anni d’insegnamento si divertiva a suonare e cantare le canzoni dei poeti musici del periodo preconflagrato.

Negli anni sessanta si era sviluppata una scuola di ‘kantautori’ simili agli antichi menestrelli provenzali, siciliani e fiorentini del millecento milleduecento, in epoca medioevale.

Luigi Tenco, Gino Paoli erano i più rappresentativi.
A lui piacevano tutti.
Ma il preferito era Lucio.
Il formidabilmente grande Battisti, vissuto negli anni settanta, artisticamente.

Aveva inserito nel lector una sinfonia di Mahler, la 5^.
Arrivò l’adagietto, con le sue struggenti, malinconiche note, melodiosamente ampie.

“Louis, dormi?”

Era la voce di Atlanta.

“No, ancora no!”
“Raccontami cosa facevi prima della Grande Katastrophe, prima che succedessero quei kataklismi sociali che ci hanno portato a questo stato di depressione euforica.

A questa pazzia bipolare.
Dov’eri, prima della Crisi dei Sistemi, prima della Guerra Informatica?”

“Ero in Toscana, dove la mia famiglia si era trasferita dalle montagne di pietra.
Vuoi che ti racconti della mia vita in quel luogo’”

“Si!”
“Era un bel posto.
Vicino al mare.
La prima volta che raggiunsi là i miei familiari, che mi avevano preceduto, era marzo.
Vi tornai poi definitivamente a luglio, finite le scuole.
L’estate al mare era per me un autentico, meraviglioso incanto.
Un sogno.
E lì il mare era come piace a me.
Blu, con le coste a picco e tanti scogli.
Ma c’erano anche spiagge con sabbia.
La sabbia era più grigia di quella delle coste adriatiche, presso Vasto e Termoli o campane, che avevo conosciuto e frequentato sporadicamente prima, quando passavamo a Scauri, presso Formia e Gaeta, le vacanze.

Passata l’estate, vennero le piogge.
Il paese divenne quasi deserto.
Molti degli abitanti erano pescatori o marittimi, marinai sempre in giro per il mondo.
Erano in viaggio quasi tutto l’anno.
I turisti erano numerosi a luglio e soprattutto ad agosto, sparivano ai primi di settembre.
Mi iscrissi all’università e cominciai gli studi, quasi certo che non li avrei terminati.
Ero impaurito, timido.
Poco sicuro delle mie forze.
La ressa degli studenti, in facoltà, mi dava l’impressione che sarei stato l’ultimo di tutti, schiacciato dalle gomitate.
Ogni giorno, per qualunque ragione, c’erano file interminabili, estenuanti.
Per la mensa, per ritirare gli statini e i certificati, per chiedere informazioni.
Si passava il tempo in fila e sembrava non si dovesse fare altro che incontrare sconosciuti disposti a rivelarci angosce e problemi, a scoraggiarci, a cuocerci al fuoco terribile dell’ansia.
Era una selezione basata sull’attesa.

A poco a poco superai le ansie, evitai gli incontri con persone ansiogene, divenni meno apprensivo, ma anche più solitario.
Andai a stare a Roma, in una pensione.
Non facevo più quelle odiose file di attese senza fine.
Per le pratiche universitarie essenziali mi rivolgevo a un’agenzia.
Non andavo più neppure a mensa.
Per poche lire pranzavo in una piccola trattoria vicina alla pensione, a due passi dalla stazione Termini.

Portavo un volumetto di poesie di Cesare Pavese, o di Vincenzo Cardarelli.

Seguivo le lezioni di letteratura latina di Ettore Paratore, le lezioni di archeologia di Walter Becatti.
Tutti gli altri docenti erano eccezionali.

Gaeta, Mazzarino, Binni, Sapegno.

Facevo i miei esami e tornavo a casa il più possibile.
Ebbi anche una breve esperienza di istitutore in un collegio nazionale.
Ero stato otto anni in collegio, e la cosa che mi stupiva era vedere come da convittore, questa volta mi ero trasformato in istitutore.
Era come fare il sorvegliante dopo aver fatto il sorvegliato.
Tornato a casa, decisi di preparare da solo gli esami e di viaggiare su e giù fra Roma e la Toscana.

Era inverno, una sera.
Suonarono al campanello.
Entrò un giovane dal ciuffo nero e dai modi invadenti.
Si presentò.
Studiava nella mia stessa università.
Salutai mamma ed uscii con lui.
In fondo alle sale ci aspettava un suo amico nemico inseparabile.
Presto infatti i due entrarono in contrasto.




Così accade spesso nella vita, che cose inseparabili si allontanino per effetto di forze inspiegabili, per ritrovarsi poi, dopo molto tempo, senza apparentemente ricordare né l’antica amicizia né l’improvviso implacabile rancore, per non parlare poi delle ragioni per lo più legate a motivi di convenienza spicciola che ne provocano la superficiale ma solida riappacificazione.




Scoprii presto che frequentare l’uno o l’altro comportava una colossale perdita di tempo.

Era dispersivo l’uno quanto disordinato e fanfarone l’altro.
Entrambi inconcludenti per l’altrui e pratici per il proprio.

Si vantavano spesso di millantate conquiste femminili, come un cacciatore che prenda solo una povera vecchia lepre stanca per poi vantare prede appetitose e inesistenti.


Dopo che il primo ebbe seri problemi di famiglia, periodo in cui con mio padre a onor del vero fu molto vicino al suo, i miei amici litigarono.
Avevano entrambe l’abitudine di allontanarsi dalle barche in difficoltà.
Più tardi avrei sperimentato personalmente questa loro attitudine.

Più tardi trovarono lavoro come insegnante.
Proprio nella Scuola del paese che mio Padre aveva contribuito a far costruire.

Passeggiavano per il paese dalla mattina alla sera e si dedicavano l’uno ad una attività politica di carattere peripatetico, l’altro alla ricerca di elemento botanicamente ragguardevoli nelle campagne circostanti.

Intanto mi preparavo con impegno alla laurea.


** L’amico appassionato di botanica divenne per un cero periodo mio compagno assiduo, specialmente quando si trattava di parlare per scambiarci le nostre opinioni.


Facevamo lunghe conversazioni e non eravamo mai d’accordo su nulla.

Questo rappresentava la base stessa del nostro assiduo dialogo.
Ricordo un anno in particolare: il 1968.

All’università nacque un movimento studentesco di protesta che fu definito ‘contestazione globale’.

Una parte di giovani, proveniente dal ceto medio ma anche da classi elevate e privilegiate, se non dalla buona e alta borghesia, rivendicava una base divesra per la cultura e la vita politica.

Rivendicava una differente struttura sociale confusamente identificabile con un regime comunista di tipo orientale, ‘cinese’.
Maoista.

Le proteste si susseguivano a Roma, a Milano.
L’inizio di tutto fu in America, con le teorie di Marcuse.

Poi la contestazione fu esportata a Parigi.
Infine nelle paludi pontine e nello stato pontificio: a Roma.

Infine tutto si placò.

Gli studenti ribelli rientrarono nel gregge.
Qualche poeta li rimbrottò, dicendo che dopotutto i veri proletari erano i poliziotti figli di cafoni e operai che li fronteggiavano nelle manifestazioni.

Una parte dei ‘sessantottini’ scelse di lavorare per l’avversario di prima. Furono dirigenti nelle aziende del capitalismo e professori universitari anche nell’odiata America.

Altri restarono degli studenti sbandati per sempre.
Per tutta la vita. Cercarono disperatamente un ubi consistam nella droga, in attività dispersive. Altri costituirono la base per organizzazioni di protesta armata, altri ebbero esperienze mistico ascetiche orientalizzanti.

Altri invece divennero politici di professione, operando una scelta ardita, quella ossia di fissare in una attività organizzata lo spontaneismo professato negli anni della contestazione creativa, frasca e viva, almeno programmaticamente.

Mi sentivo in colpa in quel periodo.


Non sapevo scegliere decisamente se stare con i sessantottini o con i
giovani tranquilli destinati ad una vita paciosa e perbenista.


Questa seconda via comportava la scelta di un partito politico, di un gruppo religioso di massa, di un lavoro ottenuto quasi come un premio, e non, come la Bibbia dice, di qualcosa di terribilmente serio, che ‘faccia sudare’, ma piuttosto di un’esistenza serena, contrassegnata da emozioni economiche, dall’accensione di mutui, dall’acquisto d’una seconda casa o di terreni, o dalla costruzione, cosa simile quasi ad un atto rivoluzionario, di un villino abusivo in zona urbanisticamente interdetta.
In effetti ero considerato dagli amici, e in quel periodo ne avevo tanti, un contestatore, un ‘cinese’.





In quell’epoca ero un comunista sospetto per i democristiani che frequentavo la sera in piazza, per poco tempo, e un sognatore cristiano per gli amici benestanti, possidenti terrieri e futuri dirigenti di banca che si atteggiavano a ultras comunisti ed extraparlamentari.

Insomma, ero destinato, come Trotzskj, ad essere preso prima o poi da qualcuno a martellate.
Magari solo metaforicamente.


Dell’analisi più o meno cosciente e approfondita di questo mio atteggiamento bifronte erano piene le discussioni quasi quotidiane con il mio amico che spesso, sconsolato, scuoteva la testa ascoltandomi.

Questo suo gesto mi faceva paura, perché aveva il valore di una condanna e di una trista profezia insieme.




Poco prima che mi laureassi mio padre morì.
Per la mia famiglia fu quel che è il naufragio per una barca.
Restammo disperatamente aggrappati ai rottami dei ricordi, all’amore e al rimpianto di quella persona, dolcissima e forte che divenne la nostra forza interiore, il nostro sostegno e nume tutelare, così come nella prima vita era stato dispensatore di energia e di vitalità.
Ancora adesso non passa giorno che io non pensi a lui, alle sue parole.

Ai suoi insegnamenti morali, ai suoi suggerimenti pratici, al suo vivere secondo un sentimento sacro e preciso dell’umana sostanza.
A volte lo sogno, di notte, mentre pranza in famiglia.

Oppure lo sogno mentre parte e mi sveglio con gli occhi pieni di lacrime, e mi pare allora che tutto sia orrendo e mostruoso e che la mia vita sia finita con lui, con le passeggiate sulla bicicletta o gli sci costruiti con lui, con le nuotate nel fiume dove lui mi insegnava che non annegare e galleggiare sull’acqua avanzando da una riva all’altra è una questione di armonia, ritmo, stile.

E mi pare che la mia vita sia doppia, e rimpiango le montagne piene di nuvole, e il vento e la neve e le serate intorno al fuoco.
E mi dispiace di essergli sopravvissuto.

Furono anni bellissimi e impegnativi.
Anni in cui persino l’ultimo amico mi dimenticò.
Per ritrovarmi dopo il servizio militare.

** Ilmio vecchio amico si laureò dopo di me.

§§

§

Per me fu necessario viaggiare molto, per lavorare, per insegnare.

La scuola per me era decisamente lontana.

E ricordo che nell’esaltazione di quegli anni pur di trovarla avrei fatto qualunque cosa.

Quelli furono anche gli anni in cui esplorai i sentieri dolci e strazianti dell’amore così come lo vedevo, testardo e totale.

Sfrenato.

Ne uscii più volte con le osssa rotte.

Ogni storia, e ormai si succedevano senza sosta, mi lasciava stordito e entusiasta, pronto a ricominciare.


Ma più di tutte furono quattro le donne che lasciarono parte di sé nella mia vita.

Una era Tunia.
Aveva un profilo etrusco.
Capelli ricci e un’andatura di gatta.
Poi venne Germana.
Una severa guida.
In seguito Ann, assetata di nulla.
Infine Nika, spericolata e semplice.



Ma queste sono cose personali e certo non possono interessarti.
Di quel tempo ricordo le lettere di Germana e le polemiche con Niki, che mi scriveva spesso, anche troppo.

Poi tutte si dimenticarono di me.
Come deve accadere per le cose veramente importanti.
Diciamo che mi possedettero quel tanto che basta e quel poco che stufa fino a ritenere superfluo continuare a dialogare a distanza con la mia capacità di risolvere tutto con le parole e di ridurlo poi ad un enigma irresolubile.

In quegli anni ancora usava scrivere delle lettere, appiccicare sul dorso delle buste di carta dei microfoni adesivi di carta colorata, spesso anche belli, che qualcuno collezionava, una volta usati per pagare la spedizione del messaggio.

Questa usanza è sparita del tutto.
E’ stata anche proibita per legge. Non è stato più possibile in seguito scrivere e spedire quei messaggi che si chiamavano ‘epistole’, o ‘lettere’.
Sarebbe una forma di comunicazione incontrollabile e permetterebbe di comunicare senza la sorveglianza etica e politica delle Autorità Centrali.

Del resto, le comunicazioni ora sono del tutto inesistenti sul piano personale e commerciale.
Non c’è una rete aerea o navale ad uso civile.
Nelle zone ancora popolate del globo gli individui potrebbero comunicare mediante i loro computers, ma questi non sono autonomamente programmabili.
Possono solo decifrare e decodificare programmi già predisposti.
Quindi, proprio non è possibile ripristinare quell’uso così personale della capacità di comunicare.

E tuttavia, ricordo che anche al tempo delle ‘lettere’ non era assicurata una comunicazione vera e propria.
Si aveva paura, pudore di affermare sinceramente le proprie idee.
E se anche fossero state affermate fino in fondo, a che scopo scriverlo e ripeterlo?

Perché poi proclamarlo a una persona che le avrebbe accettate, e quindi avrebbe risposto affermativamente con un altro atto superfluo oppure le avrebbe confutate, iniziando una polemica lunga, aspra, resa ancora più lunga e nervosa dalla lontananza, dalla possibilità di errori nella lettura e nella stesura, e quindi nella codificazione e nella decodificazione?

Così per un certo tempo questi rapporti epistolari si risolvevano in giochi, poi divenivano schermaglie, in seguito si facevano veri e propri litigi e conflitti combattuti a parole ma con estrema capacità di offesa, per risolversi in risse destinate poi a placarsi in abbandono del contatto e del dialogo o in una stanca e sbiadita continuazione di educati scambi di convenevoli e saluti, di pallide, mascherate, camuffate, prudentissime affermazioni fatte in punta di penna.

Anche quando l’uomo poteva comunicare, finiva con il non farlo perché sperimentava la conflittualità di cui era latore l’atto dell’affermare e del negare una volta che fosse palesemente dichiarato.

La selezione e l’autocensura, non certo alleate della sincerità, se taciute, assicuravano anche in un campo apparentemente immateriale uno stato di serena convivenza, se invece palesate scatenavano una serie interminabile di precisazioni e confutazioni che penalizzavano lo scambio di messaggi fra interlocutori.
Questo perché nell’atto del comunicare entravano, indebolendone la funzionalità, la volontà di dominare, di padroneggiare, di controllare.

Era come se uno degli interlocutori, a questo punto, fosse stato solo in realtà, considerando l’altro non tanto un essere capace di un discorso personale, di idee proprie, ma una propria espansione, un proprio feudo sentimentale affettivo e informativo, una specie di complice sottometto, un pubblico teatrale personale e privato, una unità intellettiva non libera ma placidamente consenziente.
Questo atteggiamento rappresentava il tarlo stesso dell’atteggiamento mentale umano.

Ne rappresentava il limite oltre il quale non c’era che il silenzio imposto, l’intolleranza, la violenta e forzata imposizione dell’assenso.
Tutto il sistema comunicativo umano portava alla rizza, alla guerra, alla pacificazione forzata sui rottami del nemico vinto, sulla soddisfazione dell’avversario in trionfo.

Dopo le distruzioni e la confusione arrivava uno stato di pacificazione e pentimento collettivo.
Tutto si riassettava.
Si preparava un’altra rissa.
Più caotica della precedente.
Adesso però le cose erano cambiate.
L’ultima guerra era stata una catastrofe fulminea.


I komputerantropi avevano ormai fondato la società dei kometutti precedendo il momento della rissa, congelando la situazione etnico politica creata dall’ultima Rivoluzione Asiatica, distruggendo tutto quanto concerne il sentimento, considerato sorgente pericolosa e fonte perenne e perniciosa di esaltazione, euforia, pseudobenessere virtuale indotto e incomprensione affettiva.



Il pretesto per questa azione di disaffettivazione sociale era stato offerto e fornito dalla paralisi del Sistema di Controllo Imformatico entrato nel caos quando il numero delle informazioni logico matematiche era stato annullato da quello dei dati linguistico espressivi.
I due campi del sapere si erano confusi a tal punto che non era più possibile discernere l’uno dall’altro, neppure stocastikamente, ed il sistema economico produttivo si era bloccato repentinamente.

Tutto quello chi i Greci chiamavano Dioniso corrisponde all’istinto immediato e non per questo innato necessariamente.
E’ l’agire in sé e per sé, al di fuori di una razionale e puntuale programmazione.

Può essere, per certi aspetti, irrazionale.
Ma questa parola risulta falsa e deviante rispetto al concetto che esprime.
Non è infatti la ragione il punto fermo.
La ragione è uno dei poli del processo conoscitivo e esistenziale.
L’altro polo è uno status senza regione né logica perché da queste necessariamente prescinde.
Se vogliamo fare un paragone, difettoso come tutti i paragoni, il balzo dell’atleta compiuto per decisione improvvisa e momentanea, ossia non programmata in tutti i particolari, è un momento dionisiaco.

Il lungo e severo allenamento compiuto con la più puntigliosa preparazione e programmazione, tale da mettere l’atleta al meglio della condizione fisica, tanto da consentila una completa padronanza dei mezzi atletici, questo è il terreno della “ragione”, il terreno di Apollo, per i Greci.

Apollo quindi può predisporre a Dioniso e precederlo. Può egli stesso “essere” talora Dioniso, quando si identifichi il tempo con il momento.

Dioniso, da parte sua, può talora esistere indipendentemente da Apollo.
A patto che si realizzi in un continuum incessante e alogico di momenti contenenti azioni decise senza alcuna programmazione.
Se Dioniso è il momentaneo sentire, o meglio, la sensazione, Apollo può essere la ragione, o il costante intuire.
Il sentimento è basato sulla sensazione, come la ragione sull’intuizione.
Anche se la semplice sensazione o la intuizione in sé e per sé non è detto che divengano sempre sentimento ed atteggiamento razionale.
Apollo-intuizione è vicino a Dioniso.
Dioniso-sentimento è vicino ad Apollo.


Questi due poli esistenziali e conoscitivi non possono coesistere. Debbono avvicendarsi.
Solo così collaborano: alternandosi e compiendo ognuno la sua parte, che è la metà del tutto.





L’aver tentato di far coesistere simultaneamente il sapere matematico-logico e quello pretico-sentimentale aveva paralizzato l’attività degli apparati computerizzati.




***



Il voler agire al meglio senza preparazione, il voler rispondere e decidere facendo coincidere preparazione programmata e responso dato aveva provocato quello stato di egocrazia che aveva isolato ogni unità computer dal tutto.



E così i computers avevano ‘perso il paradiso’ per questo ‘peccato di isolamento’.





Parlavo molto, un tempo,
durante le lunghe e miti serate di maggio
di problemi di questo tipo con un amico
che non ho più rivisto in forma
come allora quando mi frequentava
dalla precisa e schematica struttura mentale pitagorica
per così dire
ossia quasi leguminacea
visto che i matematici pitagorici sono o saranno legumi
secondo quanto essi stessi hanno asserito
a partire da Pitagora.





Passeggiavamo lungo una strada che si snodava prima tra due file di case, poi lasciando libero un lato faceva vedere un’ampia, magnifica insenatura marina e più in là di questa una breve zona collinosa ricoperta di paesi illuminati di notte galleggianti sulla terra che si alzava fino alla fascia montuosa dell’Amata.

Quest’amico, Porzio, riteneva di avere una solida preparazione matematica, nonché una incrollabile fede religiosa costituita da una scolastica reminiscenza di uno modico numero di frasette latine e da una grande fiducia nella caopacità di comprendere e utilizzare gli altri per un fine privato e globale di ottimizzazione esistenziale.

‘Domus secunda donec tertia …’

mi diceva di tanto in tanto, serio.

Questo amico, dalla intelaiatura mentale logico matematica, mi faceva spesso pensare al bipolarismo ed al dualismo Apollo \ Dioniso.

**

Fra le sue esatte formulette Apollo spesso si vestiva da Dioniso e quasi scompostamente si dava a rincorrere irragiungibili e catechistiche ninfe.
Dafne si trasformava regolarmente in alloro, lasciando il misurato, elegante pseudoapollo sudato e trafelato come una baccante senza soddisfazione personale per aver corso tanto e perso il baccanale.
Il mio amico di strada, ‘menade’ restava con un palmo di naso senza aver potuto soddisfare il ‘rito’, confuso e frastornato e si riacconciava con sussiego le vesti scomposte e tornava suo malgrado all’esattezza d’una logica forzosamente imbrigliata.



Da parte mia, ero e restavo quel che sono.
Un sentimentale che, all’opposto del mio amico, aveva impennate logico intuitive non prevedibili in ogni occasione, tanto da sconcertare chi mi conosceva solo superficialmente e fosse impreparato anche … musicalmente.



Durante quelle lunghe passeggiate parlammo di molte cose.
Di politica, di cultura, di cose spicciole.
Si univa a noi, talora, Ruber, che parlava solo, e bene.
Del Partito, in termini soddisfatti, anche se apparentemente si limitava a leggere il giornale voce ufficiale del movimento e ad evitare qualsiasi impegno, massimamente quello, per lui noioso, inutile e spinoso, di scrivere.

Questa attività lo affascinava e lo atterriva al contempo.
Aveva poche cose da raccontare di sé e degli altri, e del resto lo faceva con la prudenza di un indiziato.
Così lo ritenemmo sempre una specie di uomo del segreto e del mistero.





Si iscrisse ad una cooperativa edilizia in tutta, legittima segretezza, comprò una casa in una zona acquitrinosa vicina ad un cimitero, spargendo la voce assieme ad un suo collega, Prata, che non avevano neppure i mobili e sparì con i suoi larghi sorrisi, la sua catasta di libri sulla Russia e la rivoluzione vera mai letti,
con i pesciolini d’argento che
ne mangiavano le pagine, con la giacca di pelle, la paura per i gatti, la centoventotto verde e la frase che aveva lasciato a metà.





Quasi provai un pizzico di nostalgia, per quel figlio del mistero che tante volte avevo invitato a cena a casa mia, quando vivevo con mamma.

Con questi amici, avevamo toccato quella terra dell’anima che poi si scopre confinare con il mare della nostalgia.
Ma il terreno di questa zona è sabbioso, sferzato da venti caldi e secchi.





Mi ricordo che Ruber una sera, infastidito mentre stava preparando i prospetti per gli scrutini scolastici, operazione importante quanto banale perché si tratta di segnate meticolosamente voti e assenze su immensi prospetti di cartoncino chiaro, afferrò la copia della statuetta etrusca volterriana di bronzo che raffigura l’Ombra della sera e un secchio d’acqua e si gettò in un inseguimento feroce e vano di Porzio lungo la strada che separava le loro abitazioni.



Un’altra volta ci cacciò in malo modo perché avevano portato un gattino nel suo monolocale.







Ricordo che spesso trovavo Ruber intento a leggere enormi libri o a lottare contro i pesciolini d’argento che glieli divoravano implacabilmente.


Mi elencava con espressione attonita gli effetti negativi e tutti i possibili rimedi. Non escluso l’uso della lotta personale diretta.



Era cordiale, a volte, e offriva il caffè. Altre volte era brusco, scostante, intrattabile.
Partiva all’improvviso quando c’era un congresso del partito, sussurrando: “che cultura che c’è nel partito, però”.

La strada che tanto frequentammo per le conversazioni, Ruber, Porzio ed io, divenne poi la via dello sport. La percorrevo incessantemente con ogni tempo, anche più volte al giorno, con le mie biciclette, per lo più da solo.

Poi tutta la situazione è precipitata, per tutti.
Ci siamo persi.



Da parte mia, spero di ritrovare non tanto queste persone, che sono solo un ricordo quasi sbiadito, anche se per certi aspetti gradevole e dolce, quanto mia madre e mia sorella.



Eccomi qui, adesso.



Ancora più solo.


Louis aveva affrettato la fine del suo racconto autobiografico e si era accorto che Lara dormiva.


Si addormentò anche lui.





**********


lambda



Abbaiavi così poco e avevi il colore
della notte e delle nuvole chiare

Addio Luigia, G. di Jacovo



Mantova.

Louis la ricordava poco.
Ricordava il palazzo ducale e una strada fiancheggiata da porticati, come a lui piacevano.

Aveva sempre sognato di abitare in una città con porticati, dove poter canminare nelle giornate di pioggia, comprando qua e là nei negozi e fermandosi a parlare con la gente mentre cadeva la neve.

Magari sotto Natale, quando l’aria era fredda ma aveva qualcosa di particolarmente vitale che metteva inspiegabilmente allegria.
Il Natale!

Ormai era solo un ricordo.
In paese era legna che bruciava. Pranzi da consumare con le famiglie al completo. Regali.

Era anche gente che non aveva legna neppure in quel tempo. Gente nella disperazione e nella miseria. Nella paura.
Ma in quello che era il Natale di una volta, a questo si cercava di non pensare.

Solo a questo si sarebbe invece pensato man mano che si sgretolava il fragile tessuto della società prima che la Grande Conflagrazione e l’Incidente Nucleare Secondario, ossia l’esplosione delle Centrali Nucleari prive di controllo in tutti i paesi del globo non annullassero persino il ricordo di quella specialissima festa.
Per i Komputerantropi, che avevano sottomesso i Kometutti, il Natale era l’esaltazione dell’irrazionale, il trionfo di tutto quello che detestavano, l’emblema della natura sognatrice dell’animo umano, la esagerata attesa d’una vita più umanamente ridimensionata sul piano affettivo e sentimentale.

Era stata soppressa. Decisamente dichiarata illegale.

Da Mantova di diressero in un paese vicino.
Arrivarono accanto a un ruscello.
C’era un vecchio mulino diroccato.

Era quasi sera.
Una finestra, in alto, mandava una luce fioca.
“C’è nessuno?” - Gridò Atlanta.

La finestra si aprì.

“Chi siete?”

“Amici”
– Atlanta rispondeva con decisione –

“Ma lo sapete cos’è: Amicizia?”

“Si. E tu?”

“Credevo di saperlo.
L’ho dimenticato”

“Possiamo salire?”

“Scendo giù!”

Aspettammo.

Scese giù.
Louis la riconobbe.
Lei sembrava non riconoscerlo affatto.
Salirono di sopra.
Nella soffitta c’erano tele dipinte.
Alcune molto belle.


“E’ tanto che non vedo nessuno.
Mi chiamo Slavina.
Voi chi siete?”

“Siamo viandanti e abbiamo sete”.
Disse Louis, il cui volto prima nella penombra della sera e adesso alla scarsa luce della lanterna non si era reso abbastanza visibile.
Slavina gli guardava le mani.
Queste si piegavano con grazia e energia, quasi esprimendo il pensiero dell’esploratore.

Slavina preparò una brocca d’acqua alla menta.
Si dissetarono.

“Ti ho riconosciuto, scavezzacollo.
Casinista zucca vuota.
Sei ancora lo stesso?

Riesci a fare spettacolo anche se ti nascondi.
Non hai però perso quel pizzico di stile che ti salva dal nulla.
Scrivi ancora poesie?
E saggi?”

Slavina era tesa.
Poi d’un tratto sorrise con dolcezza quasi voluta.

Atlanta, Lara e Klaudia guardavano intanto i quadri.
Slavina, devi partire con noi. Preparati.
Non hai scelta.
Comunque, se proprio vuoi resta nel tuo molino”.
Slavina lo guardò e sorrise.
Poi con uno scatto brusco si voltò e raccolse alcune cose infilandole in fretta in una valigetta rosa.
“Perché è rosa quel bauletto?”
“L’ho ridipinta io.
Azzurra proprio non mi piaceva”
Nella minuscola valigia mise anche un gattino di alabastro verdolino.
Un gattino verde e una microvaligia rosa…
Si avviarono alla porta.
Lei non si voltò a guardare. Uscì per ultima, chiudendo poi a chiave la porta.

In fondo alle scale si fermò di fronte a una piccola stanza.
“Qui ti sedesti anni fa” – disse a Louis.

Si arrampicarono sul kamper e ne diressero la prua verso Milano.
Arrivarono presto.

Della città non restava nulla più che cumuli di macerie.
Si diressero a Genova.

A qualche kilometro dalla città si fermarono per riposarsi e pranzare.
Poi si immersero nelle rispettive cuccette e la notte li trovò addormentati come marmotte.

Il cielo caliginoso tuonava lontano. Vicino scorreva un ruscello.

Louis Onussen si svegliò.
Uscì.
Tre ore lavorò con le braccia solide come tronchi di cercola
Nel silenzio della notte imbrigliava il ruscello, ne tratteneva l’acqua con grossi sassi tondi e fango.
Finì che era quasi l’alba. Allora l’acqua cominciò a tracimare sul bordo della diga.

Un gruppo di castori aveva seguito il lavoro.
Louis aveva l’impressione che a turno collaborassero, con la loro tecnica perfetta.
Si tuffavano con rametti in bocca.
Con le zampe aggiustavano le falle, ribadivano i tronchi e rafforzavano i punti malfermi.
A questo punto, s’immerse anche lui nell’acqua limpida.


Duecento volte andò su e giù nella vasca artificiale lunga diverse decine di metri.

Aveva scelto bene il punto di sbarramento.
Sentiva l’acqua contenerlo e carezzarlo.
Docile e dolce.

Quando fu stanco uscì.
Barcollò sotto il suo peso, ritrovato appena ebbe messo i piedi sulla terraferma.
Si gettò sull’erba fresca.
Pensò al tempo passato.

A quando entrava con il cuore in gola nelle aule chiassose e a quando entrò nel silenzio di ventotto adolescenti in piedi presso i banchi nuovi.
Pensò alla bicicletta e a suo Padre, forte come Bartali, come Coppi.
Pensò alla Madre.
Alla sorella.
Ai parenti.

Si ricordò di tante cose apparentemente dimenticate.
E lo prese il sonno, senza che se ne accorgesse.
Si svegliò che la luce era ormai diffusa nella campagna deserta.
Non si udiva rumore di essere vivente.

Sentiva il suo cuore lento, dopo il riposo.
Si rivestì.

Il kamper era ripartito.
Non c’era altro che l’orma delle grosse gomme.

Era un dono di Atlanta?
Fu preso dallo sconforto.
S’incamminò verso Sud, almeno così gli pareva.

Il ‘suo’ Sud.
Camminò per molti giorni, lungo le coste del Tirreno e passò molte notti a meditare non solo sui ricordi, ma sugli inconvenienti della vita.
Sentì molte voci di bambini piangenti, nella memoria, e di madri che gridavano per non essere state amate, pur avendo amato.
Sentì la voce dolce e forte di sua madre e quella di suo padre, suadente ma anche possente come il tuono.
La parte a tratti minacciosa di quelle voci gli parve rasserenarsi come un oceano dopo la burrasca.
Si sentiva come un brutto anatroccolo incapace di farsi cigno.
Ma avvertiva come la sensazione di esserlo sempre stato.
E fu uno dei mattoni rossi bucati a sghimbescio.
Come quelli del bel paese distrutto dagli alleati capeggiati dagli americani per difendersi dai germanici, al tempo del nazismo.
Si sentiva un mattone della Cantoniera levigato dal mare.
Fu nel fondo della disperazione.

Si processò e si condannò.
“Fesso, scemo che non sei altro! …”
Urlava dentro di sé.
Era solo, abbandonato, perso.
Gli ritornava sempre più spesso in mente tutta la sua vita passata.
E soprattutto la figura di suo Padre.
Le sue parole
Era come se fosse con lui.
Doveva pur liberarsi di sé, proiettarsi in un altro se stesso, che fosse eguale e in un certo senso emulo e rivale.
Un forte da seguire, da inseguire, da emulare. Non da superare. Sarebbe stato empio.
Da affiancare.
Un amico con cui correre una enorme corsa a tappe.
Camminava e camminava, finché giunse presso una laguna a forma di farfalla.
Due strisce di sabbia ne separavano le acque del mare.
Attraversò un paese deserto, che era una specie di corpo del coleottero.
Giunse ai piedi di un promontorio.
Lo percorse girando verso sud.
Superò un agglomerato di case semidistrutte intorno a un porticciolo.
Continuò fino ad arrivare ad una spiaggetta sabbiosa. Di fronte a sé aveva un’isola triangolare.
Il sole tramontava.
Il promontorio era un susseguirsi di colline, di pianori e di zone scoscese.
Si riposò lì quella notte, dopo aver mangiato delle piccole mele aspre di sapore trovate su un alberello.
Giunse in cima ad un’erta, fra due colli. Si fermò.
Il sole stava per sorgere.
Proprio dietro uno dei due colli.
Quello che mi ricordava, per forma, il monte della mia terra.
La collina era coperta di erica viola e di ciuffi di ampelodesmos.
Cominciò a scalarla e in pochi minuti fu sulla cima.
La vista era meravigliosa.

Poteva vedere lontane isole, strisce di mare succedersi fino all’orizzonte perduto nella nebbia del mattino.
C’erano dei sassi, intorno a lui, e cespugli alti.

Cominciò a spostarli, a sollevarli, a disporli a cerchio, un cerchio sull’altro.
Quasi senza averne coscienza e volontà.
Come si dovesse farlo.

Come una rondine si costruisce il nido, Louis compose una capanna con volta a falsa cupola.
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Pareva una costruzione stabile. Saldò i sassi nei punti più delicati e riempì di terra e di rami di erica le parti scoperte in basso, così da consolidarne la base.
Era ormai quasi sera. Distese sul fondo del tholos uno strame d’erba fresca e si addormentò.
Dormì come dormiva da piccolo, sognando cose antiche e serene.
Sognò un mare azzurro e profondo.
Lo svegliò una luce dorata.
Il cielo aveva perduto la sua nebulosità.
Il sole brillava caldo e rosso.
Uscì.
Il paesaggio era davvero magnifico.
L’isolotto era sovrastato da dense nuvole argentee che avanzavano lungo tutto il dorsale dall’uno all’altro mare.
La strada che lo aveva condotto ai piedi del colle dell’erica biancheggiava nell’imperiale rosato della campagna incolta e selvatica.
Sotto di lui il colle era scuro , stabile, dolce e forte.
La capanna di pietra pareva un tempietto del paleolitico.
Si sentiva un ‘veteris aetatis homo’. Vecchio di milioni di anni.
Il più vecchio, il più lontano dall’attuale.
Uno sparo assordante alle sue spalle, vicinissimo, lo scosse.
Cadde come un pezzo di legno tarlato.

Rinvenne in un capanno. Era disteso su un letto di foglie crepitanti, come di mais.
Una pelle di non so quale bestia lo riscaldava.
In un angolo era acceso il fuoco scoppiettante e rosso di brace.
Pensò che con tutte quelle foglie sotto sarebbe stato facile fare la fine di una beccaccia arrosto.
Si alzò, ma si sentiva fiacco.
Debole.


Vide un recipiente pieno di latte.
Trovò una pagnotta di pane scuro e raffermo. Afferrò un pomo di melo e trangugiò tutto fino a sentirsi sazio .
Sedette accanto al fuoco, a guardare il fumo azzurro che saliva, le vecchie scoppiettanti che si avventavano su per la kappa, le fiamme vivide, lucenti e i castelli fatati e incantati della brace.

“Chi siete?”

Si voltò.

“Louis Onussen, uno smistatore ecodinamico”

“Da dove venite?”

“Da nord, adesso. Ma sono del sud.”

“Potete restare. Siamo un pugno di scacciatori.”

“Scacciatori …?!”

“Si. C’è rimasto assai poco da cacciare.
E noi scacciamo.”

“Ho capito!”

Ma non aveva capito un dattero, come disse Nkapisc Kbbell.
Uscì all’aperto.
Erano sopra un alto colle, riparati da alberi e arbusti bassi ma dalla vegetazione fittissima e rigogliosa.
Cominciava a sentirsi assai meglio.

Al di là d’una piccola valle si innalzava un colle più alto, coperto di ciuffi d’erica.
Era il colle dove aveva costruito il microtempio.

Cominciò a scendere nella valle fra i due colli per risalire sul colle dell’erica.
La macchia era densa, quasi inestricabile.

Lo raggiunse Giagh.
“Ti accompagno” – gli disse tra i denti.
Aveva due foltissimi baffi e un velo di barba.
Arrivarono sulla cima.
Si vedevano i due mari.
Il sole stava tramontando.
Tramontava ad est.

“E’ l’alba” – disse Louis.

“No. E’ il tramonto.

Poco fa abbiamo invertito il senso della rotazione intorno all’asse terrestre”

“Avete … cosa?”

“Abbiamo cambiato quel che ti ho detto”
E come avete fatto? E perché?”

“Possiamo farlo. Possiamo guidare la Terra come un grosso, vecchio camion. Potremmo anche disorbitarla”

“Ma perché lo avete fatto?”

“Così. Senza motivo”

“E gli effetti quali saranno?”

“Che occorrerà chiamare aurora il vespero e tramonto l’alba”
“Per questo ho sentito quel boato, quella sensazione stranissima e sono svenuto”
“No. Il cambiamento di rotazione è inavvertibile.
E’ rallentato.
Provoca solamente la sospensione della marea marina.
Sei svenuto perché hai sentito un antisparo.
“Un … che!?”
“Una antisesplosione.
Una implosione, insomma.
Tutte queste campagne una volta erano piene di esseri animati.
Sapevano correre, nuotare, camminare sopra e sotto la terra. Noi uomini siamo rimasti soli perché abbiamo eliminato gli animali.
Poi abbiamo iniziato ad autoeliminarci.
Noi scacciatori vogliamo lottare contro tutto ciò che era la caccia, la violenza per puro divertimento, vogliamo ripopolare queste terre.
Agitando il pianeta provochiamo una rigenerazione globale. Disorientiamo i nemici della vita.
Mediante implosioni controllate ritroveremo le specie scomparse.
Mufloni, lupi, pecore, anatre, pettirossi …
Molti animali già hanno ripopolato questa zona sperimentale.
Ci siamo preparati, organizzati e rafforzati.
Siamo un gruppo di scienziati ribelli. Meglio però parlarne il meno possibile.
Qui ognuno di noi campa come vuole. Come è giusto. Si fa musica e si fa poesia.
Abbiamo rifugi sicuri ed ogni sorta di sistema difensivo.
Potrai restare qua quanto vorrai. Tu sei uno di noi, perché hai operato con e per gli animali. Con le rondini.
Quando vorrai, te ne andrai, smistatore.
Però per restare dovrai accettare la nostra Charta dei Diritti e dei Doveri delle Terra.”
Aveva intanto ‘svitato’ letteralmente un sasso dal terreno in quel punto piuttosto consistente ed estratto dal terreno una leva ad espansione.
La azionò ed un enorme portello si aprì lungo tutto il fianco del colle dell’erica.
“Andiamo” – disse.
Scendevano lungo una scalinata ampia, luminosa.
Arrivarono ad uno spiazzo immenso, attraversato da veicoli di tipo diverso, originalissimo, rapidi e silenziosi.
Alcuni erano sospesi ad una certa distanza dal suolo, senza traccia di ruote né d’altro sostegno.
Si vedevano anche delle normalissime biciclette, della monociclette persino.
Ci avvicinammo ad uno dei veicoli parcheggiati nelle vicinanze.
Non aveva ruote.
Galleggiava in aria.
Appena fummo a bordo una calotta di plexiglass ci avvolse, ci inglobò.
Il veicolo partì velocissimo, compì una virata a sinistra e imboccò un passaggio ampio, circolare.
Vedeva intorno luci di ogni tipo sfilare e apparire come strisce fulminee.

Gli parve che il passaggio fosse una lunghissima spirale.
Il bolide rallentò e si fermò al centro d’un vasto ambiente sferico, le cui pareti erano luminose e dorate.
Quattro tunnel si aprivano intorno a noi in direzioni opposte sullo stesso piano, altre due in alto e due altre ancora in basso.
Erano di colori diversi e luci a differente gradazione.
Non avrebbe in effetti potuto giurare su quale delle direzioni fosse l’alto e il basso, la destra e la sinistra.
Ne aveva però vagamente coscienza.
“Qui siamo nel cuore della vecchia Terra. Intorno a noi c’è materiale metallico fuso a temperatura altissima.
Come vedi, però, la situazione è sotto controllo e possiamo respirare, vivere tranquillamente.
Qualcosa, un materiale straordinario, ci isola dal calore infernale del nife”.
Pilotò verso una struttura metallica il veicolo che ne aderì alla superficie, ove si apriva un portellone.
Entrarono.
“Questa è la cabina di pilotaggio del Pianeta Terra”
Louis annuì.
Era più compiaciuto che stupefatto.
Così adesso hai visto tutto, viandante.

Siamo pochi e dobbiamo aspettare che lassù, in superficie, la gente riacquisti il senno e si liberi dalla tirannia dei computerantropi.
Dobbiamo avere molta pazienza.

Quanto alla forza, ne abbiamo. Ma usarla complicherebbe le cose.
La useremo solo in caso di un’azione violenta nei nostri confronti”.

Risalimmo sul veicolo tornando presto alla luce del sole, che non era più tanto pallido, come mi parve.

Forse quelle strane evoluzioni della Terra avrebbero veramente indotto i detriti volatilizzati e sospesi nell’atmosfera a depositarsi e consentire alla luce del sole di tornare ad essere quella di una volta.
Giagh aveva una sorpresa per Louis: una stupenda bicicletta da corsa.

Nei giorni seguenti iniziò a compiere lunghi giri sul promontorio, in compagnia delle pattuglie di sorveglianza.



**********


mi



Dove sei?
Dove erra la tua anima bianca
In cerca di violette?

Gennarino di Jacovo, Kwandargos e altri canti




Era sul promontorio ormai da una settimana quando, dopo una lunga escursione, giunse all’ingresso di una grotta.
Entrò cautamente.
Vide una luce fioca.
“C’è qualcuno?”
Avanzò lentamente.
Poi vide luccicare qualcosa.
I suoi occhi si stavano abituando all’oscurità.
Accese una torcia a batterie.
Ne aveva sempre una sulla bici, quando anni fa si svegliava prestissimo e compiva un lungo giro di almeno 22 kilometri prima di andare nel liceo dove insegnava lettere.
Con sé portava sempre ogni possibile accessorio, purché leggero e funzionale.

A volte aveva anche qualcosa di troppo, a dire il vero.
Capì cos’era lo ‘sberluccichio’ di prima.
Una bicicletta.
Bella e in assetto da corsa.
Tre moltipliche, diciotto marce.
Colore rosso acceso.

“Ti piace?”
Sentì una voce alle spalle.
Non si girò.
Riconobbe quella voce.

“Si, mio padre ne aveva una di questo stesso genere.
Era un ciclista formidabile.
Ai suoi tempi si pedalava sullo sterrato, con una sola marcia, durissima.
Si usava anche il rapporto a ruota fissa, per controllarsi meglio nelle discese in montagna.

“Non la uso mai.
La bici non fa per me.
Mi chiamo Giano” …

disse girandosi e salutando con un gesto della mano.

”E tu? Chi sei?”

“Sono Genn, ma mi chiamano Onussen. Louis Onussen …
sono uno smistatore di rondini, un esperto di patopeiiologia … si … uno che favorisce la nascita di rapporti affettivi con l’ambiente, con il contesto …”

Genn, ora quasi avrebbe preferito il suo nome antico, Genni, cominciava a ricordare il giorno in cui era stato fatto prigioniero, per essere poi adibito a quel lavoro insolito e per certi aspetti eccentrico.
Non era poi tanto più stravagante di tanti altri.
Al mondo, s’era visto di tutto.

Addestratori di cani, cacciatori di rane e di lumache, uccisori di foche, e chi più ne mette più ne ha.
Aveva una bicicletta, una volta.

O meglio, ne aveva almeno una mezza dozzina.
Aveva imparato presto lo sci, il nuoto e la bici.
Al tempo in cui insegnava in un ginnasio di provincia, fra laguna e mare, sabbia e cielo, si svegliava alle cinque, all’alba.
Si preparava e percorreva una lunga salita pedalando di buona lena.
Poi, tornato a casa, si preparava per andare al lavoro.
Era un insegnante di materie letterarie. Di lettere.
Ricordava molte cose belle, altre decisamente antipatiche.
Ricordava un Natale pieno di regali e di panettoni.
Un presepe, troppo vecchio ormai per la chiesa di un paese vicino, regalatogli da un sacerdote e conservato solo per rispetto religioso ma senza una effettiva utilizzazione in casa.

Poi era successo qualcosa di assolutamente imprevisto.

Lo avevano preso e sistemato sotto la Grande Kupola con l’incarico di S&.T.B.S.: Swallows and terns big sorter:
Smistatore di rondini di terra e di mare.

Fu allontanato dalla famiglia, a cui era affezionatissimo.
Non rivide più la sorella, né la madre.

“Posso provarla?”
Disse a Giano indicando la bicicletta.
“Si!”

La prese in spalla sostenendo la struttura con la mano destra.
Era leggera.
Arrivò alla strada asfaltata.
Infilò i piedi nei ganci grigi sui pedali dopo aver registrato leggermente i freni.
Partì inarcandosi sulle pedivelle e facendo forza sul manubrio.
Pedalò a lungo, fino in cima alla salita. Piano.

Era proprio Capo d’Uomo.
on la vecchia torretta spagnola.

Alla sinistra c’era il colle che anni fa scalava a piedi con la bici in spalla.

Un colle che aveva chiamato con molti nomi: Monte Let il be, Colle delle Quattro Isole, Colle Erika per le piante che lo ricoprivano d’estate fino quasi a dicembre.
Adesso era sicuro.

Abitava in quella zona un tempo.
Iniziò a scalare quest’ultimo piccolo monte dove giorni prima aveva costruito una capanna di sassi.
Proprio sulla cima, sommerso dall’erica e da ciuffi di ampelodesma, trovò sette sassi a forma di casetta che tanti anni prima aveva sistemato a ricordo di quelle passeggiate.
Vicino era cresciuto un nespolo, nato dai noccioli che vi aveva gettato e che aveva ricavato dal nespolo che cresceva nel suo giardinetto.
Sull’albero non vi erano nespole, né fiori, ma tante foglie.

A ciuffi, lunghe, rigogliose, belle, quasi superbe nella loro umiltà, nel segreto della loro vitalità: sostituirsi continuamente.
Ne colse un ciuffo.
Scese di corsa. Inforcò la bici e corse giù per la discesa, divorando la strada fino al paese, quasi dieci kilometri più in basso, in riva al mare.

Deserto, abbandonato.
Distrutto.
Pedalò per tutto il lungomare.
La strada era piena d’erba filamentosa.
Ampelodesma. Dappertutto.
Si fermò nella piazza, davanti al Municipio.
Posò la sua bici accostandola ad una palma e si incamminò verso il Municipio.
Salì la gradinata prospiciente il portone di legno.
Il mare grigio alle sue spalle borbottava arruffato.
Alzò gli occhi alla finestra del primo piano.
Vide baluginare qualcosa alla vetrata.
Un’ombra biancastra.
Si accostò al portone. Era aperto.
Entrò.

L’interno era pulito.
Salì le scale.
Giunse nella sala del consiglio.
Girò con lo sguardo lungo gli scanni vuoti fino alla fine della sala.

Seduta sulla sedia che fu del sindaco, intenta a scrivere con una logora penna biro dilaniata dai denti e consunta dall’uso su un quadernaccio semi strappato, vide una figura bruna, ferma. Incappucciata.

Si avvicinò lentamente.
Non s’era accorta del suo arrivo.
Infine la grossa figura seduta alzò la testa.
Lo vide e dilatò le pupille.
“Salve!” - disse Genn – ma voi siete …”
“Si … Sono stata Sindaco qui e sono ritornata, ora che sono sola”.
“Ma eravate partita.
Eravate andata via, perché siete tornata qui?
A fare cosa?”
“Questo posto mi ha stregata.
Dopo anni e anni di tentativi adesso posso avere finalmente l’impressione di dominate questo desolato contesto senza essere fischiata e schernita.


Sto scrivendo la storia degli anni dal 1973 ad oggi.
Anni di tranquillità, di vittorie, di silenzio.
Niente applausi, ma nemmeno fischi”.
“Certo, non vi ricordate di me” disse Louis.



“No”.
“Mi avete praticamente fatto licenziare.
Nel 74. Insegnavo nei corsi serali della Scuola Media del paese.
La nomina dipendeva dalla proposta del sindaco, che non mi confermò.
Il sindaco eravate voi.
Certamente qualcuno vi imbeccò, e vi imbeccò male.
Molto male per me …”.

“Non ricordo.
Se dovessi ricordare tutti quelli che ho conosciuto … “

Tacque.

“Lei come si chiama?”

“Onussen”

“Onussen … Onussen … Onussen … Onussen … che porti un nome simile, non conosco nessuno!”

“Ma foste voi a farmi sostituire, o fu qualcun altro?”

“Qualcun altro, Onussen”

“Sicuro?”

“Certo. Io non avrei potuto.
Ero sindaco da poco.
Troppo poco.
Forse faceva parte del prezzo politico.
O forse fu una pura coincidenza.
Ma è sicuro di quel che dice?”

“Certo che sono sicuro.
Contavo su quel modesto incarico.
Per me era pane.
Poco pane, ma pane.

Dovetti girare per anni tutta la provincia e conoscere tutte le scuole della zona prima di potermi avvicinare ancora a questo paese, dove avevo la mia unica parente: mia madre.
Tutti gli altri miei familiari abitavano lontano.

A dire il vero, credo che la cosa mi sia stata addirittura utile.
Imparai a guidare, a conoscere gente, a consumare fiumi di carburante, a saltare i pasti …
Ma ormai è acqua passata.

Tutto è finito.
Niente più scuole, ormai.
Né di mattina né di sera”.
La bruna, imponente figura chiuse il quaderno e si alzò.
Ripose la vecchia biro in un taschino dei jeans malridotti, laceri, di gran moda, si sarebbero detti un tempo.

Si tolse il cappuccio che la rendeva simile ad un francescano povero, piuttosto che ad un ex ricco ed ex sindaco, e di fatto comunque sindaco ancora, visto che non si vedeva traccia di pretendenti in giro. Quasi per autoproclamazione …
I capelli le circondavano il viso rossastro, quasi paonazzo.
I riccioli bianchi, più rigogliosi di un tempo, le inanellavano il volto solcato dalle rughe.
“Scrivere. Per chi, ormai.
E per cosa, in fondo? Chi mai mi leggerà?”
”Scrivere per scrivere.
Scrivere per potersi poi capire.
Per correggersi.
O per leggersi.
Anche se non vi fossero più lettori, perché gli attori sono il teatro. L’autore ne è il padre e il figlio.
Gli spettatori sono in fin dei conti un inutile e futile accessorio.
Vi ricordate le mie poesie?
Ve ne donai un libretto.
Lo lasciai alla vostra segretaria.
Dal ’73 non riuscii più a parlarvi, se non in occasione di una manifestazione studentesca.
Gli alunni della scuola dove insegnavo, qui in paese dov’ero tornato, chiedevano che fossero migliorate le strutture fatiscenti della loro scuola.
Li guidai.
Qualcosa ottennero.
Da allora divenni l’angelo custode – o il demone istigatore per i miei rivali – dei miei alunni.
Per loro chiedevo tutto.
Scrivevo ai politici, ai ministri, ai sindaci.
Finii persino in tribunale, per tutta riconoscenza.
Ne uscii assolto, ma piuttosto stanco per la colossale perdita di tempo”.

“Ah … che seccature. Poesie! Non ho mai voluto sentirne parlare. Non me ne intendo”.

Fece lo pseudofrate.

“Vi saluto, sindaco.
E complimenti per la sua erre ben pronunciata.
Prima non ci riusciva proprio.
O forse era un signum nobilitatis …”.

Fece per andarsene, voltandosi di scatto.


“Senta. Ho voluto bene a questa gente. A questo paese incantevole”.

Parlava e indicava vecchie foto appese al muro.

“Ma non mi capivano. Non mi capivano. Perché?
Avrei … Avrei voluto fare molte cose.
Più cose ancora di quelle che avrei voluto.
Ma non ci riuscii.
Perché non trovai mai nessuno che volesse seriamente collaborare con me.
Volevo fare di questo promontorio una specie di oasi.
Di paradiso terrestre.
Ma non mi capivano. Perché non mi capivano?”

“Perché in questo paese erano tutti stranieri che si illudevano di avere delle radici che non invece avevano..
Non avrebbero mai potuto accettare che uno straniero, il più straniero di tutti, li guidasse verso l’organizzazione, il benessere, la felicità
Volevano un capo del posto.
Uno di loro.
Una guida autoctona.
Per questo in definitiva non l’hanno mai trovata”.

“Certo … certo … Ma lei era uno straniero, qui. Anche lei …”.

“Straniero, come gli altri.
Forse di più.
Ho sempre avuto la vocazione dell’esilio”.

“Ricordo vagamente suo padre.
Come era?”

“Nel libro che scriveste, Vestivamo alla marinara, parlaste del segretario che conosceste arrivando in Comune.
Ricordate il libriccino che scriveste sulla vostra esperienza di sindaco…?”

“Diamine … si!…”

“In quel libro …”

“Ma suo padre … com’era …”

“Era forte… coraggioso … semplice … terribilmente complesso, come l’uomo … da giovane gli amici, i coetanei lo chiamavano …”
“Come …”

“lo chiamavano … l’Uomo. L’Uomo, lo chiamavano così … per una poeesia che lui aveva scritto in cui si definiva in questo modo non ricordo bene perché. Probabilmente perché si era comportato a suo parere da … uomo…”

“Ero amareggiata, in quel periodo, e definii il segretario in modo probabilmente affrettato. Ma lei perché se la prende tanto?”

“Perché il lettore che ha conosciuto un altro segretario ed il paese in cui ha lavorato può facilmente equivocare.

Voi avete contribuito a rendere pesante non il lavoro, ma il riposo stesso e la memoria di mio padre, con la vostra leggerezza…”

“Andavo in Comune … tutti collaboravano assai poco … dovevo farmi accompagnare dai miei avvocati, tanta era la mia paura di sbagliare … capisce che ambiente difficile …
Ero amareggiata e fui aspra in certi giudizi, in certe impressioni…”

“Quel segretario che voi definiste Don Abbondio, aiutò a modo suo, ossia legalmente, la mia famiglia.
E il suo predecessore, mio padre, andava solo in Comune.
Forse che una pecora indifesa deve essere più coraggiosa di una potente e ricca esponente d’una forte famiglia di proprietari d’aziende e fabbriche, d’una capitalista trionfante …?

Eravate amareggiata anche nel ’74, quando praticamente mi sostituiste a scuola?
La politica dei licenziamenti, tanto praticata negli anni a venire dai suoi fratelli in fabbrica iniziò proprio da me, non so se per consiglio dei suoi avvocati o di qualche locale ras pseudopolitico…”

“La licenziai …!?”

“Si.


Ve l’ho già detto.


Insegnavo nella scuola serale ed in un comune a cinquanta kilometri. Erano incarichi annuali.

Il Comune mi sostituì, proponendo un altro al posto mio.
Fra l’altro un mio ex alunno.

Il provveditorato seguì l’indicazione e assunse l’altro.”


“Ma come potevo sapere tutto di tutti?
Certamente fui spinta da altri a quella scelta…”


“Come vedete il donnabbondismo abitava in Comune, ma certo non dentro l’ufficio del segretario. Né del vecchio, né del nuovo.”

“Come …”“Scusatemi … rischio di essere anch’io ingiusto e sgarbato … Perdonatemi, Sindaco, e lasciatemi andare”.

Di qui certamente non vi manderà via nessuno.

Cosa posso fare per voi?”




“Uscendo, chiuda la porta.
E passi per quello che fu l’ufficio di suo Padre.




Era certamente un uomo in gamba.

Di lì avrete certamente visto il mare, e la piazza quando c’erano tutti gli abitanti e si gareggiava il Palio marinaro.

Come vorrei entrare di nuovo in Comune e vedere gli impiegati uscire per la pausa schiaccia …”

“Pausa che papà non ha mai fatto.
Era sempre al lavoro.
Giorno e notte”.

Girò la poltrona verso la grande finestra, verso il mare ancora così bello.

Verso il lungomare e la Pilarella, verso Talamone.


“Mio padre aveva un sogno.
Volete saperlo?”

“Dica pure”





“Prima di morire, prematuramente … iniziò Genni commosso … gli sembrò in una pausa della sua malattia dolorosa e fatale … che la Madonna gli avesse chiesto di costruire un Tempio qui, in questa terra, su questo Monte d’argento.

Non sono riuscito a realizzare il suo desiderio.

Ma adesso potrei quasi farlo.
Non posso avere l’approvazione delle autorità ecclesiastiche, perché non esistono più.

Ma la Vostra, dico la Vostra di Unico Sindaco ed Unica Autorità, posso averla?”





“Ma certo … ecco … voglio scriverle l’autorizzazione … faccia pure quello che desidera … e si ricordi di mio nipote, quando prega …era anche lui mite, forte e coraggioso … era il nostro futuro … era tutto … non sarà semplice, i mezzi sono scarsi … mi dispiace di non poterla aiutare …Addio, Genni…”.


Così Louis Onussen andò via, chiudendo la porta con dolcezza, come faceva quando andava via dall’ufficio di suo padre, sempre immerso nelle carte, nelle pratiche, sempre occupato a risolvere e rimuovere problemi e ostacoli d’ogni tipo.

Tornò dai suoi amici ed espose la sua idea.

“Un tempio!”

Dissero. “Va bene.
Potrebbe servire come luogo di incontro sacrale della comunità dell’Uomo Nuovo”.

Giagh, il loro capo, disponeva di mezzi notevoli.
Si misero presto tutti al lavoro.
Non era passato molto che una enorme struttura di forma triangolare, a piramide, sorgeva su colle Corallo, o colle d’Erica, proprio sopra le costruzioni edificate precedentemente da Genn.

Era un edificio imponente.

La sua struttura proiettava la forma del colle coordinandone la sagoma tonda e proseguendone in verticale le linee essenziali.

L’interno era arioso.
Luminosissimo anche di notte, le pareti trasparenti riflettevano il cielo e il mare.
Il verde dei monti si rifletteva nitido.
Il sole di giorno e la luna di notte scintillavano su quell’armatura d’amore e di pace.
Una musica dolcissima echeggiava sempre all’interno del tempio.
Era una musica amata da suo Padre. Una preghiera di John Lennon e Paul Mc Cartney.


“ Quando sono oppresso e soffro, Madre Maria viene da me
e dice con la sua saggezza:

Let il be…!





***********

ni




Qualunque via che sia
sarà la via migliore
le ore
passeranno veloci.
voleranno comunque
sopra qualche arancione
cielo africano

e a Te
non ruberò mai neppure una penna


da Kwandargos, G. di Jacovo




I biscotti a forma di pesciolini.
La sorella, la madre.


Il gruppo di Giagh era composto da poche centinaia di uomini e di donne. Costituivano il gruppo tecnici e scienziati fra i più preparati e geniali, sulla Terra.

In quei giorni fu terminata la costruzione di una enorme barca.
Doveva servire a raggiungere un’isola vicina ove un altro gruppo di ribelli era stato localizzato.


Sul sistema trapanet era giunta una comunicazione ‘virtual message in the bottle’ in cui si chiedeva aiuto e collaborazione.

Era necessario trasportare del materiale altamente sofisticato e non ridimensionabile.
Il carico consisteva in un reidrogeneratore utile per l’astronave in costruzione, utile per il viaggio su Petra.
Quando lo scafo fu pronto e rifornito d’acqua e di viveri, salpammo.
Eravamo in sette.
A poppa era stato sistemato un motore e potevamo servirci di una vela, all’occorrenza.
Giungemmo all’isola e sbarcammo.
Camminammo a lungo prima di scorgere del fumo.
Ci avvicinammo e vedemmo una capanna.
Entrammo. Non c’era nessuno.
Il fuoco era acceso.
C’era profumo di biscotti.

Si avvicinò al tavolo ed ebbe un tuffo al cuore.
In un piatto c’erano tanti biscotti ben cotti, caldi, a forma di pesciolini.
Genni corse fuori.

Girò intorno alla capanna e vide una piccola costruzione.
Una signora stava armeggiando con un secchio d’acqua.
“Posso aiutarla? –disse – dia pure a me il secchione!…”
Prese il secchio.
La donna aveva capelli chiari, ben pettinati.
Occhiali a forma d’uovo che le davano un’aria mite, ma severa.

Sorrideva.

La riconobbe, era sua madre e la abbracciò.

“Gennaro, dov’eri…?”

“Mi avevano spedito su un promontorio …

ti racconterò poi.
E Trice?”

“E’ partita poco fa per andare a vedere dall’altra parte dell’isola l’altra capanna.
Avevano bisogno d’aiuto.
C’è un bambino malato…”

“Siamo venuti a prendervi”

Ci avviammo verso la capanna con il secchio dell’acqua.
Poco dopo sentirono il rumore d’un fuoristrada.
Riconobbe la sorella con il marito, Gius.

Si salutarono con affetto grande.
Sedemmo e mangiarono biscotti.
Poi, dopo aver parlato a lungo si avviarono.
La barca attraccò presto al promontorio.

“Louis!”

Lo chiamò Giagh.

“Cosa c’è?”

“Una persona che ti cerca…”

“Lo so … vado subito …”

Corse verso la grotta.
Il sole stava tramontando.

Non aveva particolari preoccupazioni in quel momento e perciò, come gli succedeva nei momenti in cui non aveva particolari preoccupazioni, pensava al problema, o alla questione, dell’anima in Platone.
E si ricordava di quando aveva otto anni o anche qualcosa di più e l’inverno era vicino.
I genitori gli compravano i pantaloni nuovi, un maglione e le scarpe pesanti.
Desiderava le scarpe con il carrarmato di gomma tenera zigrinata. Voleva quelle scarpe che camminando producevano un fruscio tutto particolare.

Non era mai riuscito ad averne di veramente consono ai suoi sogni. Ma la vita era questo.
Desiderare di avere ed essere in definitiva come hanno e sono gli altri, ma per accontentarsi di un fruscio tutto proprio e accattivante.
Un fruscio che dica:

“Ehi, il rumore è quello che fanno tutti.
Però sono io che arrivo da te adesso”.

Nella grotta la luce era soffusa.
In fondo c’era una specie di studio.
Pieno di libri, con una scrivania di legno e un computer.
Su una sedia, una figura esile, piccola, intenta a leggere con una lente d’ingrandimento una rivista.

“Mamma … come stai?”
“Gennaro … sono venuta a farti una visitina …”
“Ho visto Trice e Gius, ma non sapevo che eri qui anche tu.

Forse ti hanno detto …”
“So che presto partirete per Petra con Akrab.

Io resterò qui per un altro poco di tempo.
Poi verrai a prendermi, vero?”

“Una volta partiti, non si torna indietro più.
Ma tu verrai con il prossimo viaggio, insieme a Trice e Gius.
Abbiamo tante cose da dirci.
Sono quasi dieci anni che non ti vedo.
Lasciati abbracciare.
E dammi un bacio …”

Louis aveva vissuto tutta la sua vita con sua madre, ma poi si erano separati.
Non per loro volontà, ma per le conseguenze della Grande Katastrophe.

Durante i primi anni della loro separazione il dolore era stato atroce.
Louis non riusciva a vivere, e del resto non riusciva a trovare il modo nemmeno di scomparire.
Quasi per raggiungere la madre.
La cercava come un piccolo animale abbandonato.
Le musiche, i film, persino le notizie giornalistiche gli parlavano di lei.

Non riusciva a capire perché fosse così legato al Padre e alla Madre, contemporaneamente.

Anche da piccolo, quando gli chiedevano a chi volesse più bene, se al papà o alla mamma, lui rispondeva: ‘a tutt’eddue …’.

Così passavano gli anni.

Il mondo si allontanava.
Era diventato lento.
Una chamma rooka.

Una lumaca.
Una chiocciola.

Aveva voluto amare tutta la sua famiglia.
Non aveva scelto una parte. Non era stato politicamente accorto, o corretto.
Così tutto il mondo lo abbandonava.
Era del resto necessario.
Era la vita.

Molti anni prima, quando era assistente volontario ospedaliero, capiva benissimo come il bene non richiede ricompensa.
Eppure vedeva come i suoi colleghi questa ricompensa la ricevessero, assistendo i conoscenti, i parenti, prima ancora degli estranei.
Lui, che non aveva parenti né conoscenti, compiaceva gli estranei, e trovava nel vederli star bene la gratificazione.

Ma una gratificazione deve pur esserci.
Lo stesso Dio, Gesù, non ha forse amaro di riconoscenza Maddalena, che aveva gratificato così dolcemente la Sua Persona.
Anche un Eroe, un Martire ama il sorriso e una carezza.

**

Quando si era allontanato solo formalmente dal volontariato, aveva continuato ad aiutare chi ne avesse necessità senza orario né limiti.
Così aiutava gli alunni, come fossero suoi discepoli per la vita.
Così aiutava persino gli animali, sempre riconoscenti e grati, più degli umani.
Portava con sé pane integrale avanzato in casa e lo lasciava sul Monte, durante i suoi allenamenti in bicicletta.

A volte aveva la sensazione di essere isolato, di agire in modo troppo originale.
Ma a questo lo avevano spinto gli atteggiamenti del contesto, obbediente a poche leggi e tutte ispirate all’interesse esclusivamente personale.

Il Padre gli aveva lasciato una eredità molto bella.
Di nessun valore terreno e mondano, come si diceva un tempo.
Ma forse importante anche per la terra e per il mondo.


***


Durante la sua degenza in ospedale, al San Giovanni di Dio di Orbetello, all’ Umberto II ed al Gemelli di Roma, aveva scritto su un quadernetto che lo stesso Louis gli aveva comprato, tutta la sua esperienza in terapia.




Le sue parole erano attente al contesto, agli Uomini, alle Infermiere, ai Medici.

Non una sola parola che cedesse al dolore, ma un atteggiamento d’amore per tutti, per tutto.
I degenti compagni di stanza erano citati per nome, affettuosamente seguiti e descritti fino alla guarigione.
Un atteggiamento di affetto e di sentimento simpatetico che Louis nei molti anni in cui aveva conservato il manoscritto aveva sempre ammirato come qualcosa di santo.

Aveva spedito il quaderno di Antonino in copia anche al Santo Padre, Karol, Giovanni Paolo II.
Dal Vaticano gli era giunta in risposta una benedizione nel 1984 ed una nel 1996.
Ma nel 1996 c’era stata poi la ‘contestazione’ nei suoi confronti che lo aveva spinto ad andarsene da Orbetello.
Non aveva potuto completare quel compito speciale che il suo genitore e maestro gli aveva di fatto affidato.

Si era trasferito a Grosseto, ritenendosi però sempre un cittadino di Monte Argentario, divenuto per lui per così dire il centro del mondo, del cosmo, la Salita verso il Monte di Antonino.
Il Monte del Tempio.

Gli anni passavano e questo progetto veniva in qualche modo osteggiato.
Ma lui non poteva giudicare.
Poteva aver torto, aver capito male ogni cosa.
Eppure andava avanti, provando ogni strada, seguendo ogni traccia.

Il tempo passava veloce e la situazione generale ora si presentava molto complessa.

Nessun riconoscimento ufficiale venne dalla Chiesa a quanto diceva il Padre nel manoscritto.
Le idee però che vi erano contenute si andavano affermando, come se qualcuno le avesse diffuse dopo averle in qualche modo conosciute.
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Certo, erano idee di armonia, di concordia.

Ogni attenzione era dedicata alle Donne e ai Giovani.

La Madonna è sempre tra noi.


La Madonna, come diceva in fondo al quaderno il Padre di Louis, era la tolleranza, la pazienza, la collaborazione, l’Amore.


Antonino in un giorno di Maggio aveva visto una grande luce, sul mare, in direzione di Talamone e Grosseto, mentre era a Porto Santo Stefano.


Ecco, la luce, Madre Maria, le Donne e i Giovani.



I grandi temi che l’intelligenza profetica del suo Maestro avevano assegnato all’Umanità, incaricandolo di ricordarne a tutti l’importanza.


E Louis, solo, con limitati mezzi aveva infaticabilmente, ma con un certo tatto, propagato questa semente.


La reazione del contesto non si era fatta attendere.
A scuola era iniziata una forma di opposizione che lo frenava, lo tormentava.

Questa forma di incomprensione non aveva però impedito che facesse persino il preside del ‘suo’ liceo.

Dopo che almeno tre decenni erano passati, era giunta una benedizione apostolica dal Santo Padre, per lui e per i suoi.

In un certo senso, ora poteva dire che il suo compito era di nuovo nelle mani del Padre.


E intanto le cose del mondo precipitavano verso la Katastrophe dei Computerantropi e dei Kometootti.


“Gennaro …”

La mamma lo chiamava così.
Con il nome che un giorno lui stesso aveva detto di preferire.


“Adesso non divagare.
Devi prepararti. Ti sono piaciuti i biscottini?

Te ne ho preparati un po’ per il viaggio.


Non mangiarli prima d’aver visto Rigel alla tua destra, rosso e vicino.

E quando arriverai presso Betelgeuse, prega con la preghiera preferita da tuo Padre:




Salve, Regina, Mater misericordiae, vita dulcedo et spes nostra,
salve …

Addio, Genni …”





***






***************


omicron





“Avete qualcosa da mangiare?”


Luca 24,42





Quella notte Louis era di servizio.
Normale pattugliamento aereo.
Con il garrisp.
Il garrisp è una trottola, un fulmine, una specie d’esplosione volante.
Un velivolo multifunzionale.
Il cielo era blu scuro.

Saliva con il garrisp che sfrecciava silenzioso e invisibile.
A sette e sessantatré garrison fire metro l’angelo grigio si inverticalò e salì a perpendicolo sopra la superficie terrestre; dopo sette minuti si tuffò nell’Atempo.
Rallentò e proseguì a spirale lungo le tre fasi del Vico fino alla Zona venti e due.

Si fermò sopra una verde distesa di erba medica e mentuccia.
Louis scese e constatò che il terreno era sabbioso.

Di sabbia grossa e nera.
Vapori salivano in dense chiare colonne vicino al suo garr.

Una casa in lontananza con le finestre aperte lo convinse ad avvicinarsi.
Quando passò il cancello un cane piccolo e marrone abbaiò e un altro più grosso, chiaro e rosso si avvicinò agitandosi tutto. C’era anche un ragazzo.

… “Jeri! …”

Louis riconobbe il giovane Jeri mentre prendeva acqua da un rubinetto vicino al cancello e riempiva un secchio di rame fulvo.
Jeri si alzò.
Sorrise, si spostò il lungo ciuffo di capelli biondi dalla fronte, passando la mano bianca sopra i fili sottili, chiari e dorati.
Venne avanti sorridendo.

“… Professore …”

“Dammi il secchio.
Questa volta ti aiuto io”
disse Louis .

E fece per afferrare il secchio.
Ma le mani non presero il manico.

“Louis…noi siamo immagini qui, a Zonaventi”.

Guardò Jeri e lo vide come qualcosa di vero.
Di solido.
Un corpo.

“Noi qui siamo tutto quello che sarebbe stato se non fosse stato quello che fu.

Vedi qui, sul collo?…”


- disse spostando la maglietta scura mentre il professore annuiva –

“…qui c’è un segno rosso.


C’è ancora.
Come se quella notte di dicembre non avesse provocato altro che questo.


Ero disperato, quella sera.
La sera della notte di Santa Lucia.
Ma poi all’improvviso mi sentii bene. Sereno.
Quando Dio mi chiamò, volli incontrarlo. Lui mi prese.
Mi disse, vedendomi:






… “ Qui a Zonaventi non studierai l’aoristo, né la consecutio temporum, ma disseterai tutti quelli che avranno sete e saranno disperati nelle notti senza fine …”






Così adesso coordino quelli che consolano gli afflitti da ogni angoscia, specie quando la sera, la notte sono afferrati dalla melancolia ….



E fu allora che in mezzo a quei pazzi che si reputavano dio e urlavano e si agitavano si alzò uno, li fece tacere e intonò il ditirambo, innalzando al di sopra del kaos il racconto di sé.



E benché già ormai gli amanti si fossero persi, l’amore fu salvo.
Come dice qui il mio amico Poeta Dylan Thomas.
Addio, professore, stia bene.
Ee non porti troppi libri nella sua borsa … ”.

L’immagine si dileguò.
Mentre si allontanava, vide una palla nera con due occhi vispi e le orecchiette dritte.

“Come si chiama…?”

Non gli rispose che il sibilo del vento fra le canne.

“Tu sei Argos, 

Tu mi accompagnerai ovunque io vada. Mi salverai.
Risalì sul garrisp.
Teneva ben stretto al collo il suo piccolo lupo nero e avana.

Ritornò nel tempo.
Argos era come Asterio e Kelidonia, due rondini che Louis aveva raccolto perché cadute dal nido.
Era nero, con ciuffi di bianco, e le zampe avana.
Cresceva in fretta.
Non lo faceva quasi dormire, tanto era vivace. Una piccola tempesta. Un uragano.
Mentre pensava ai suoi, che stavano preparandosi al viaggio su Petra con l’astronave Akrab, entrò Giagh.


Lo Scacciatore…


“Ci siamo! … Louis, si parte per Petra …abbiamo trovato il pezzo che ci mancava per il motore propulsore. E’ fatta! …”












Accucciolato presso al focolare
Placidamente dorme il mio gattino
Ha smesso poco fa di miagolare
Perché voleva anch’egli un bocconcino


Ed ora forse starà lì a sognare
Di quando c’era ancora il padroncino
Che se n’è andato lontano a studiare
Chiuso in collegio il greco ed il latino.


Oh com’è brutto il mondo dei mortali
Per sete di potere e di ricchezza
Credendoci da più degli animali


Ci procuriam dolore ed amarezza
Sciupando sui volumi e sugli annali
L’età più bella della giovinezza.






Gli venne in mente questo sonetto scritto molti anni prima dal padre, insieme alla sorellina. In quel periodo Genni Louis era in collegio.
Comunicava spesso con la famiglia scrivendo lettere e ricevendore in risposta.



Mentre pensava a questo Giagh si era diretto ai sotterranei, verso Akrab.



Dopo qualche tempo si avvertirono le vibrazioni del poderoso propulsore motore.

Louis prese posto a bordo, dopo tutti gli altri.
Era seduto da qualche secondo quando si addormentò.

E sognò di non essere.

E di essere Nessuno.

Le cose intorno avevano un gusto speciale.
La mente appena afferrava quel gusto speciale, insolito.



Argo si addormentò vicino a lui.
Nel sonno ebbe un sogno.

E sognò di Minù, di Grigio, di Vielikino e di Moobie.
E di tutte le gatte e i gatti che cercava di ritrovare nei fitti intricati angoli del tempo e dell’atempo.

Poi si sorprese, ad un certo punto, perché riusciva a toccare la piccola Minù, bianca e nera.

E in quell’attimo Louis si accorse che non sarebbe ritornato più nel tempo.

E che avrebbe incontrato tutti, al di là di ogni sensibile delusione.


Prese in braccio le gattine Minù e Moobie e si avviò con Argo.
Andò là.

Proprio da quella parte.
E non volle più tornare.
E non ritornò.


Grosseto, dal 19 settembre 1980 al 19 novembre 2005












Scritto da


Gennarino Luigi di Jacovo di Antonino e Ines
Louis Onussen the Big Sorter

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